(foto LaPresse)

Con Sepulveda non è scoccata la scintilla

Mariarosa Mancuso

Le parole di cordoglio sono più credibili del solito, ma lo scrittore cileno non sta nel nostro cuore

Dovremmo oggi caldeggiare la lettura di Luis Sepúlveda, vittima del coronavirus diagnosticato dopo un festival letterario in terra portoghese. Sarebbe facile, comodo, e di suprema utilità per apparire finalmente personcine garbate, nonché amanti della letteratura impegnata e civile. Sarebbe molto allineato partire suggerendo Il vecchio che leggeva romanzi d’amore per arrivare alla Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” (per completezza c’era da metterci il film di Enzo d’Alò, “La gabbianella e il gatto”, cogliendo l’occasione per inneggiare all’amicizia, alla poesia, alla solidarietà, ai deboli da aiutare, ai sogni – tutta roba che fa guadagnare punti, presso i sostenitori delle librerie aperte ora e subito).

 

Purtroppo Sepúlveda non sta nel nostro cuore. Se occorre precisarlo, parliamo dello scrittore. Non dell’uomo incarcerato sotto Pinochet, e neppure dell’esiliato, e neppure dell’innamorato che ha sposato due volte l’amata. Sentite un “tin… tin… tin…”, come il rumore del registratore di cassa (o per farla meno antica, il “bip… bip… bip…” dei messaggi che arrivano uno dopo altro)?. Sono tutti gli amici e i conoscenti che ci stanno togliendo il saluto. Mentre i social traboccano di dichiarazioni d’amore, di lamenti per la dipartita, di “come faremo senza” – tranquilli, se proprio volete leggerli i libri restano, è il loro bello, come diceva Vladimir Nabokov “un romanzo vive più a lungo di uno scrittore”. Stavolta le parole di cordoglio sono un po’ più credibili del solito, lo scrittore cileno 8 milioni di copie in Italia le ha vendute. Ma la mania del lutto – anche su un posto con pretese come Instagram – vi sta facendo diventare un branco di vecchie zie, sappiatelo.

 

Visto che a punti ormai siamo sottozero, spieghiamo. Non siamo insensibili alla letteratura latinoamericana, abbiamo avuto come tutti la gran cotta (che rimane) per Cent’anni di solitudine di García Márquez; abbiamo goduto La festa del caprone di Vargas Llosa; abbiamo letto Manuel Puig (vabbè, c’entrava il cinema, nel “Bacio della donna ragno”), abbiamo letto Manuel Scorza, Julio Cortázar, e ovviamente Borges che abita un labirinto tutto suo. Poi la passione si è ammosciata, perché da laggiù cominciavano ad arrivare Isabel Allende e Paulo Coelho. Non è ripresa finché all’orizzonte non è spuntato Roberto Bolaño. Uno che a volte pure irrita, ma come sanno irritare solo i grandi amori.

 

Con Sepúlveda la scintilla non è mai scattata. Neanche per Il vecchio che leggeva romanzi d’amore. Ma come, non ti piace un romanzo che celebra la lettura? No, perché di solito sono esageratamente piacioni. Qui poi c’è l’intervallo nella foresta amazzonica, con gli indios che insegnano a vivere (preferiamo di gran lunga l’educazione collegiale o cittadina). Abbiamo troppo amato Moby Dick di Melville per apprezzare Il mondo alla fine del mondo (giornalista esule cileno alleato con Greenpeace contro i cacciatori di balene) o la Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa. L’animalismo e l’ecologia sono più noiosi della letteratura.