Lucho il ribelle
Sepúlveda dimostrò che si poteva scrivere con brillante svagatezza dritti verso un’esplosione finale
Quando uno scrittore che pubblica libri sia per ragazzi sia per adulti si sente fare l’eterna domanda, “qual è la differenza?”, gli tocca inventarsi una risposta sul momento; la verità è che la risposta non c’è, a parte un sano disprezzo per tutti quelli che pensano che scrivere per ragazzi significhi semplificare, al massimo bisogna far valere la risposta di Dino Buzzati: “E’ come scrivere per tutti, però più difficile”. Un’altra risposta è non dire nulla, ma indicare i modelli anfibi: Ian McEwan, Elsa Morante, Italo Calvino. E Luis Sepúlveda.
Il primo romanzo di Sepúlveda che ho letto è stato Diario di un killer sentimentale, ero andata in libreria a comprare dei libri per l’università e quel titolo aveva attirato la mia attenzione. Avevo vent’anni, l’età delle stragi sentimentali, l’età in cui ogni giorno si scatena un’ecatombe, l’età in cui lasciarsi o tradirsi equivale ad assassinarsi; mi piacque lo stile di quella prima persona stizzita, cinica, in apparenza distaccata e in profondità autoironica. Finii il libro in un paio di giorni e scoprii che si poteva scrivere anche così, con brillante svagatezza, nascondendosi dietro a un genere o alla parodia di un genere, dritti verso un’esplosione finale.
L’ultimo romanzo di Sepúlveda che ho letto è stato Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa, protagonista un capodoglio color della luna, a metà tra Moby Dick e una leggenda mapuche: nel frattempo quell’autore cileno aveva conquistato milioni di lettori in tutto il mondo, le sue favole erano state amatissime, i suoi gatti, topi, lumache e gabbianelle diventati i migliori amici dei bambini. Ogni volta che ne usciva una, si rinnovava un singolare stato di grazia, una leggerezza robusta in cui ogni creatura pareva imparentata con quel tigrillo comparso nel suo primo successo, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore. Il segreto del grande scrittore era l’impossibilità di afferrarlo: parlava di politica e sapeva tutto, scriveva favole e ne volevi un’altra, raccontava il suo paese, nel quale era stato incarcerato e dal quale era stato costretto all’esilio, e ogni volta lo inventava di nuovo. Sentivi la lacerazione, e insieme l’ostinazione alla vita di chi ha conosciuto molto presto la morte e la tortura. Alessandro Leogrande ha scritto: “C’è un momento aurorale, una frattura, un punto di non ritorno nel mezzo della biografia di Luis Sepúlveda. Questo evento, che racchiude in sé i tre piani, coincide con la mattina dell’11 settembre 1973. Con l’assalto della Moneda, il palazzo presidenziale di Santiago a opera delle forze armate golpiste di Augusto Pinochet”. Adesso che sono morti entrambi, le foto del loro dialogo al Salone del libro di Torino, nel 2017, sono allo stesso tempo conforto e mancanza.
Guanda, sempre nella traduzione di Ilide Carmignani, ha pubblicato un libro di articoli di Sepúlveda intitolato Storie ribelli: il racconto più bello è quello in cui sta sbrigando formalità burocratiche con la moglie Carmen (sposata due volte, un amore di ragazzini con molte vite in mezzo) e il console, dopo averlo riconosciuto, gli regala la nazionalità cilena di cui era stato privato. Luis detto “Lucho” Sepúlveda, l’uomo che ha fatto grande la letteratura di quello strano stato a forma di striscia verticale che va dal deserto di Atacama alla Patagonia, a causa delle sue idee e della sua attività politica in Cile non era gradito, e viveva in tutto il mondo tranne che a casa sua. Fino a quel giorno. “Carmen e io siamo usciti dal consolato e ci siamo messi a passeggiare per Madrid. Anche quella era una mattina molto bella, con l’inconfondibile luce di Madrid che invita al buonumore, ma noi due camminavamo in silenzio. Ehi, cileno, me lo offri un bicchiere di vino?, ha detto Carmen. Certo, cilena, ho risposto io. E dopo trentun anni eravamo di nuovo due cileni che camminavano per le strade del mondo”.
Quando abbiamo saputo che Luis Sepúlveda si era ammalato di coronavirus, molti di noi erano in isolamento, intenti a risistemare le proprie librerie, a chiedersi come mai non avessero più voglia di leggere romanzi oppure a cercare risposte proprio in loro: straniti, spersi, appena colpiti da un nemico a cui non sapevamo ancora dare forma. A me è sembrato un tradimento dagli scaffali a cui chiedevo riparo, e per ciò mi era ancor più intollerabile. Ho pensato a una delle volte in cui avevo incontrato Sépulveda, a casa dell’ex ambasciatore cileno, a Roma, festeggiando l’uscita di uno dei suoi libri organizzata dalla sua casa editrice italiana. Bevevamo tutti pisco, e di quella sera, come spesso mi accade quando mi sento minuscola, so soprattutto cosa non ho detto: grazie di ogni parola scritta, cileno.