Fuga in osteria
Il virus cambierà il panorama della ristorazione stellata. E saranno le trattorie a trionfare. Un libro
Tommaso Melilli è un uomo antropologicamente molto comune, un trentenne che beve birra e chiama compagna la sua donna, e al contempo un autore editorialmente rarissimo: è un cuoco che sa scrivere. Certo, c’è stato Anthony Bourdain ma non ricordo il libro di un cuoco italiano che non sembrasse scritto coi piedi, o a quattro mani nessuna delle quali sapeva cosa stessero facendo le altre tre. Mentre Melilli è uno scrittore vero, più uno scrittore-cuoco che un cuoco-scrittore, e non a caso nelle sue pagine trovo il grande Mario Soldati e non il grosso Antonino Cannavacciuolo.
Leggo “I conti con l’oste. Ritorno al paese delle tovaglie a quadretti” (Einaudi), sorta di viaggio nelle più consapevoli cucine d’Italia, come una guida alla ristorazione che verrà, ai pranzi e alle cene di quando saremo di nuovo liberi. Il morbo è un acceleratore di processi già iniziati, l’obsolescenza del mondo Michelin per dirne uno. “Gli stellati sono troppo spesso dei ristoranti tristi”, scrive Melilli, e finito il virus saranno anche molto lontani dai loro clienti abituali, i riccastri internazionali: come faranno a Venezia, Firenze, Roma, Costiera senza avventori americani e asiatici? Dovranno riconvertirsi, chiaro. Dovranno imitare i cuochi segnalati, raccontati, intervistati nel libro.
Innanzitutto Giovanni Passerini, romano a Parigi che ha abolito, primo del suo giro, l’autoritario menù degustazione “unico e obbligatorio”, quel tacere-e-pagare già dilagante nei ristoranti d’avanguardia, fra i clienti maso e i cuochi sado sui quali luccicava l’Enrico Crippa del “Piazza Duomo” di Alba. Passerini ha il senso del tempo, da parecchio nella sua cucina i nuovi arrivati vengono messi in guardia: “Mi raccomando quando metti l’olio, non fare cerchi o spirali, che se no lo chef s’incazza e dice che sembrano gli anni Novanta”. I piatti dopo il corona saranno impiattati col mestolo, niente ghirigori, niente pomodorini, sciroppini, salsine, basta leziosaggini.
Dopo il corona da Passerini non credo che andrò (fuori dall’italofonia mi spengo), invece a Dio piacendo tornerò alla “Crepa” di Isola Dovarese, nella provincia di Cremona che è la provincia di Melilli e di mia mamma. “Noi la cucina di territorio l’abbiamo sempre fatta”, racconta il titolare Franco Malinverno, “poi a un certo punto gli altri hanno smesso, e hanno cominciato a fare altro, lo stesso altro in tutta Italia. La tagliata, il branzino, le capesante...”. L’insopportabile menù unico nazionale, con risvolti di colonialismo nordista nei confronti delle regioni meridionali dove il succitato pesce si chiama spigola ma diventa branzino per compiacere milanesi e milanesizzati. E non faccio i nomi dei ristoranti pugliesi dove negli ultimi anni ho letto “branzino” solo perché in questo momento stanno inguaiati.
Dopo il corona non andrò nemmeno da “Trippa” (Milano) e al “Santo Palato” (Roma), stavolta non per motivi linguistici bensì per motivi religiosi (a parte che sono due locali in cui prenotare rasenta, anzi rasentava, l’impossibile). Diego Rossi su Facebook mette post climatisti e omosessualisti invisi a Dio (Genesi 1,28 e 19,24), mentre Sarah Cicolini, a parte la h, si colora i capelli di viola ed è piena di tatuaggi proibiti da Levitico 19,28. Peccato, perché come me amano moltissimo le frattaglie. Pazienza, perché Melilli spiega i due locali talmente bene che è come se ci fossi stato. E tanto il fantastico piatto “Pane e figa” inventato dal Rossi anni addietro non fu una primizia assoluta: a pagina 136 si appura che la vagina di vitella veniva già servita, sebbene con altro nome, ai tavoli del ristorante Consorzio di Torino, questo sì un indirizzo da segnarsi per quando verremo scarcerati.
Mi segno inoltre, siccome lo ignoravo, che il diaframma è più saporito del filetto ed è altrettanto tenero, costando tuttavia meno. Il libro è pieno di queste dritte, alcune così specifiche altre più generali: “Se in un menù ci sono quindici primi e dodici secondi ed è venerdì, è assai probabile che quel ragù e quell’arrosto siano in frigorifero da lunedì”. Sul tasto della lunghezza del menù Melilli giustamente batte e ribatte, con variazioni deliziose: “Pretendere da un ristorante una scelta molto ampia significa rassegnarsi a mangiare cose vecchie, oppure surgelate. Ogni volta che decidiamo di non andare in un ristorante perché non c’è abbastanza scelta, c’è un giovane cuoco onesto che muore”. Leggendo “I conti con l’oste” sogno che nei locali italiani esauritosi il morbo si mangerà meglio e si spenderà meno: perché tanti ristoranti unicamente commerciali spariranno e il loro posto verrà preso da queste trattorie appassionate dove si fa tradizione però con sottovuoto e abbattitore. Fosse vero.