Libri da rileggere per non cadere nel catastrofismo da virus
Dal Candido a Il mondo senza di noi. Spunti letterari per non condurci in vicoli ciechi del pensiero
Tempi di riletture. Il Candido di Voltaire è il romanzo filosofico di un day after. Scritto dopo una catastrofe, il devastante terremoto di Lisbona (1759), che ai contemporanei parve come allegoria di macerie anche delle idee del mondo, prende di mira l’ottimismo. Che allora imperava col pensiero di Leibniz. “Se questo è il migliore dei mondi possibili, afferma Candido, che cosa sono allora gli altri”? Dinanzi alle smentite – tragedie fisiche, miserie degli uomini – che danno l’idea che “Dio abbia abbandonato il globo a qualche essere malefico”, il giovane discepolo di Pangloss abbandona le certezze del precettore, ma non abbraccia quelle di Martino, il prete manicheo per il quale le catastrofi provano che il mondo è governato dal Male. Come stare, allora, al mondo, si chiede Candido, “se la felicità perfetta non esiste”? Un secolo prima di Max Weber, la risposta di Voltaire alla catastrofe è un inno alla nascente modernità: adattamento al mondo. Il romanzo illustra una morale empirica dell’operosità: l’uomo “nato per vivere nelle convulsioni dell’inquietudine o nel letargo della noia”, si riscatta col lavoro. È esso che “tiene lontani dai tre grandi mali del presente: il bisogno, il vizio e la noia”. Sembra di rileggere i passi dell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, scritti cento anni prima.
Oggi, dopo un mese di pandemia, di lutti catastrofici, di chiusura e distacco, servirebbe l’analogo del Candido: un’etica giudiziosa, una fiducia nell’operosità, una filosofia dell’adattamento e della prudenza. E invece, siamo invasi da teorie smoderate. Che portano in vicoli ciechi.
Prendiamo il lavoro. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro prevede il taglio di 195 milioni di posti di lavoro entro la fine del 2020. Eppure, il dibattito prevalente è quello, tra il sociologico e il filosofico, sui modelli, tempi ed orari del “lavoro distaccato”. Come un modello per sempre. Si tende a eternizzare le necessità dell’emergenza: a vedere nel lavoro qualcosa di eccessivo e di ridondante da alleviare e ridimensionare. C’è un magnetismo del lockdown che suggestiona opinionisti, scrittori, sindacalisti. La recessione sembra un tema degli economisti. Il paesaggio surreale delle città svuotate, del silenzio, dell’aria ripulita dai fumi del traffico e delle ciminiere assenti, dalla natura che rinvigorisce selvaggia genera una sorta di ipnosi, di utopia auto avverante. Intellettuali engages, rapiti dall’incanto del paesaggio “senza di noi” giungono a domande inquietanti: “... e se la Natura facesse a meno di noi”, scrive Michele Serra, “non ne guadagnerebbe in bellezza e vigore”? Non sarebbe il caso, si chiede Dacia Maraini, di rinunciare per sempre alla città “densa” che è veicolo di virus? Pericolose suggestioni. Attenti ai segnali contrari. I giornali li segnalano. La Natura si sta, in effetti, riappropriando dei propri spazi: animali domesticati all’abbandono e quelli selvatici incoraggiati ad invadere i centri deserti delle città fantasma. Nel golfo di Napoli, elogiato da Michele Serra come vertice di bellezza del paesaggio de-antropotizzato, sono comparsi, per la prima volta, gli squali. Sarebbe da consigliare una lettura tipica di giorni da lockdown: “Il mondo senza di noi” di Alan Weisman (Einaudi, 2008). Il saggio dello scrittore americano si chiede come reagirebbe la Natura, se “un virus, naturale o artificiale, colpisse Homo Sapiens, spazzandolo via ma lasciando intatto il resto”? Il libro dettaglia, con certosina puntualità, la sequenza di fenomeni che in ore, giorni ed anni, trasformerebbero il mondo fino a ridurlo in una poltiglia informe, in una confusione informe e selvaggia, in un sistema entropico votato alla morte termica. Non ci sarebbe più Natura senza la cura e la presenza (densa) dell’uomo. C’è poi chi vagheggia il mondo del “giorno dopo”, magari con l’uomo, ma “senza il capitalismo”. Anzi, senza la way of life capitalistica. Non è, per niente chiaro, quale sia il rapporto che costoro postulano tra i virus e i nostri stili di vita. Se escludiamo le bubbole – virus (enti materiali) che cavalcano onde elettromagnetiche (enti immateriali) generate dalle antenne del 5G; virus che vagano nell’aria, trasportati da polveri e particolati o dall’odiata CO2 – qual è il rapporto tra il patogeno e il capitalismo? La suggestione nasce da una immagine troppo allegorica per non essere sfruttata come metafora: il virus sembra azzoppare e infettare solo la parte boreale del Mondo, il ricco Nord. La tentazione di connettere malattia e abbondanza è forte. Un plagio, ovviamente, il nesso non esiste. Eppure, in molte analisi che circolano del day after Covid, capita di inciampare, più che nelle preoccupazioni della più forte recessione dell’epoca moderna, nelle fustigazioni anticapitaliste del parroco Tommaso Malthus, nella sua teoria dei “freni preventivi”: le epidemie come correttore del disordine consumistico, riequilibrio degli eccessi dell’abbondanza. Insomma, pulizia del mondo. E il virus che colpisce solo il Nord? Magari scopriremo che è stato un caso. Dovuto al fatto che la terra gira. E che questo virus, forse, predilige, climi freddi o secchi. È solo casualità che tutti i focolai – da Wuhan all’Italia del Nord, dal centro Europa a New York – si trovassero tra i 4 e gli 11 gradi centigradi di temperatura?
Quanto alle colpe della modernità: i microrganismi (batteri, virus, funghi, protozoi) sono la popolazione più estesa in Natura, partorita dall’evoluzione prima dell’uomo. La competizione (malattia) o cooperazione con essi dura quanto il tempo della presenza della vita sul pianeta. L’aspettativa di vita degli umani, nelle varie epoche, è il solo indicatore possibile dell’efficacia della lotta agli agenti patogeni. Nei 200 anni della modernità, le speranze medie di vita sono passate da 35 ad oltre 80 anni. Accelerando esponenzialmente negli ultimi 50 anni. Oggi ci si avvicina ai 100 anni. Altro che revocare in dubbio la modernità. Il problema vero sarebbe estenderla a quella parte dell’umanità che ne è ancora fuori.