Germano Celant, più un curatore che un critico
E' morto il “pirata” lanciato alla volta dell’arte contemporanea
E’ scomparso ieri per Covid-19 Germano Celant. Quest’anno avrebbe compiuto 80 anni, era nato a Genova, orgoglioso delle sue origini sinti tanto da chiamare il suo unico figlio Argento come il materiale prediletto da quel popolo nomade per i propri manufatti da commerciare in giro per il mondo. E girovago è stato anche lui, laureatosi a Genova con un globetrotter come Eugenio Battisti, maestro irregolare dell’Antirinascimento (1962) e poi professore negli Stati Uniti. La tesi era su Marcello Nizzoli: artista, grafico, designer, architetto, da qui in poi tutti campi d’azione anche per Celant. Battisti fonda una bellissima rivista, “Marcatré” contigua al Gruppo 63 dove scrivevano il genovese Sanguineti, Arbasino, Eco, Gregotti, Portoghesi e tanti altri. Il caporedattore però era Celant che ha usato la rivista come una nave corsara alla volta dell’arte contemporanea. Alla Biennale del 1966 nota che le grandi opere di Rauschenberg arrivano a Venezia su un cacciatorpediniere e in un’intervista recente ad Antonio Gnoli ha detto: “C’è niente di più patriottico e bellico al tempo stesso? Era immediatamente chiaro che l’arte stava diventando un grande mezzo di propaganda”. E lui stesso divenne, come si suol dire, una macchina da guerra. Nel 1967 conia l’Arte povera per la Galleria “La Bertesca” di Genova con opere di Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Pino Pascali ed Emilio Prini, di fatto un nuovo brand italiano da esportare.
Negli primi anni 70 frequenta Firenze dove pubblica un libro seminale, Precronistoria 1966-1969 (CentroDi 1976), che introduce in Italia la Pop Art, l’arte minimalista e concettuale. Inizia poi a frequentare New York collaborando con la gallerista Ileana Sonnabend (ex moglie di Leo Castelli), diventando peraltro collaboratore fisso del Guggenheim Museum. Cura grandi mostre in infiniti altri musei e gallerie, anche al Centre Pompidou, la fondamentale “Identité italienne” (1980) che mixa arte e documenti quotidiani, cultura alta e bassa insomma. La sua opera di traghettatore degli artisti italiani nelle principali collezioni museali estere è stata inestimabile, ma non meno importante è stata la sua attività nell’architettura e nel design. Conosce e diventa amico di Frank O. Gehry a Los Angeles, insieme faranno poi una memorabile performance alla Biennale del 1985 travestiti da bizzarri personaggi con anche Claes Oldenburg, Il corso del coltello. E’ sempre Celant a coniare il termine “architettura radicale” per definire l’opera di Superstudio, Archizoom e di tutti gli altri sostenitori del contro-design che negli anni 80 confluiscono a Milano divisi fra gli studi Memphis, Alchimia e la Domus Academy. Unico genovese a conquistare Venezia, nel 1997 è direttore della 47esima Biennale d’Arte: chi scrive lo vide per la prima volta alle Corderie dell’Arsenale mentre faceva da guida con il figlio neonato sulla spalla a Miuccia Prada. Direttore artistico delle Fondazioni Prada, Emilio Vedova e Aldo Rossi, nel 2015 cura con Italo Rota la grande mostra della Triennale Art & Food per l’Expo e nel 2016 è l’ideatore dell’operazione “The Floating Piers” di Christo e Jeanne-Claude sul lago d’Iseo: enormi pontili galleggianti gialli in plastica circondano l’isoletta di San Paolo, perfettamente calpestabili. Il successo è clamoroso e di risonanza mondiale, in poco meno di un mese i pontili sono stati attraversati da circa un milione e mezzo di persone.
Germano Celant è stato un curatore più che un critico, si autodefiniva scherzosamente un pirata per sottolineare la sua totale indipendenza, ma sapeva essere anche un signore: frequentava uomini e donne di potere, metteva in soggezione con i suoi completi di pelle nera e il suo grande anello Navajo (ovviamente d’argento), ma amava soprattutto essere complice degli artisti di umile estrazione come Giuseppe Penone, accompagnandolo nei boschi dove era nato e cibandosi solo dei suoi frutti – castagne, pinoli, mandorle, uva passa – gli stessi che si trovano nella torta panarello e nel pandolce genovese di cui era ghiottissimo.