Il fotografo che inventò la felicità
Punta a riaprire a metà maggio la mostra veneziana con gli scatti di Jacques Henri Lartigue. Il curatore Curti: “Era ossessionato dalla felicità, dalla sua ricerca, dal suo studio. Per questo la fotografa: per trattenerla il più possibile”
Dani Lartigue, Aix les Bains, agosto 1925
André Haguet, un cugino di Lartigue, Foresta di Rambouillet, 1938
Anna la Pradvina, detta anche “la signora con le volpi” Avenue du Bois, Paris, 1911
Coco, Deauville, 1938
Federico Fellini sul set di La città delle donne, Cinecittà, Roma, 1979
La Baule, 1979
Il conte Salm durante la finale dei Campionati del Mondo di tennis, Parigi, 8 giugno 1914
Madeleine Messager detta Bibi durante il viaggio di nozze con Jacques Henri Lartigue. Hôtel des Alpes, Chamonix, 1920
Mani di Florette, 1961
Maurice Lartigue, detto Zissou nel vento dell’elica di Amerigo. Buc, 1911
Richard Avedon, New York, 1966
Sono gli avvenimenti più banali quelli a cui torniamo quando ripensiamo ai momenti di felicità. Sono queste le immagini di cui sono tappezzati gli album di famiglia, e Jacques Henri Lartigue ne aveva riempiti 120. A sette anni ricevette la sua prima camera, e da allora, fino alla morte avvenuta nel 1986, a novantadue anni, ha trascorso la sua vita alla costante ricerca dello scatto che catturasse un attimo di gioia pura, per farlo vivere per sempre: un angolo della casa dove trascorreva l’estate da bambino, i momenti di intimità del viaggio di nozze, la frenesia di un pomeriggio qualunque nella strada alla moda della città, le corse automobilistiche durante i fine settimana.
La mostra “Jacques Henri Lartigue, l’invenzione della felicità” esposta alla Casa dei Tre Oci di Venezia, aperta a marzo, mette in rassegna 120 fotografie dell’artista, di cui 55 inedite, selezionate dall’archivio Médiathèque de l’architecture et du patrimoine, donate da Lartigue alla Francia, e copie di stralci dei suoi album. “La parte di mondo che lui rappresenta è quella del nouveau siècle. Una Parigi borghese e ricchissima, anche mentre l’Europa è sconvolta dalle due guerre mondiali”. Spiega al Foglio Denis Curti, direttore artistico della Casa dei Tre Oci. “Lui è un privilegiato, non è mai andato a scuola, è sempre stato circondato dal bel mondo, da intellettuali, dal buon vino e dal buon vivere. Il suo terrore è che questo possa non durare in eterno. Si rende conto di avere una vita così meravigliosa e felice da volerla raccontare minuto per minuto, negli album dei ricordi, perché ha il terrore che gli possa scappare dalle mani”.
Lo hanno chiamato l’enfant prodige della macchina fotografica: rampollo di una ricca famiglia di Parigi, Lartigue è stato un fotografo amatoriale per tutta la vita, fino ai sessantotto anni, quando i suoi scatti sulla belle époque sono stati esposti al MoMa di New York nel 1963, in una grande mostra che lo porterà al successo. E Richard Avedon, raccogliendo i suoi scatti nel libro “The diary of a century”, ne creerà una visione diversa, forzata, ma al passo con i tempi. Le immagini intime e diaristiche dei primi anni del ‘900 che fino ad allora Lartigue aveva accumulato per sé, corredate da didascalie, commenti, annotazioni, gli regalano una seconda vita: da pittore, illustratore e scenografo poco riconosciuto, a grande fotografo di moda e del cinema. Ma a consacrarlo a livello internazionale sarà la pubblicazione del suo portfolio sulla rivista Life, per puro caso nello stesso numero che conteneva gli scatti dell’omicidio del presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy, il più venduto della storia. “Era un uomo onnivoro e curioso, e noi lo proponiamo in una versione nuova: non solo belle époque, ma anche ritrattista, fotografo di cinema e di moda. Tutti si innamoravano di lui. Diventa amico di Fellini e immortala il suo set – continua Curti – Aveva un modo di fare, di stare al mondo, che era unico e meraviglioso. Fellini gli chiese addirittura di prendere parte a un suo film. In Ginger e Fred interpreta lo spazzacamino volante. Naturalmente un uomo che vola”.
In ogni scatto di Lartigue c’è vita: ricca, irruenta, divertente, ma molto distante dalla spontaneità che le immagini sembrerebbero trasmettere. “Non si può evitare di notare come questo fotografo abbia lavorato con una dose enorme di consapevolezza. La fotografia era sempre per lui il risultato di un progetto molto preciso, di una composizione. Il titolo della mostra è: ‘L’invenzione della felicità’, non il ‘racconto’. C’è la denuncia evidente di un’ossessione. Lartigue era ossessionato dalla felicità, dalla sua ricerca, dal suo studio. Per questo la fotografa: per trattenerla il più possibile”.
L’esposizione curata da Curti, Marion Perceval e Charles-Antoine Revol, rispettivamente direttrice e project manager della Donation Jacques Henri Lartigue è stata aperta al pubblico il 4 marzo 2020, ma ha dovuto chiudere pochi giorni dopo secondo le disposizioni del governo, a causa dell’emergenza sanitaria da coronavirus. “È importante vedere Lartigue oggi, perché mai come adesso, e soprattutto in questo lockdown, le immagini riguardano molto noi, quello che mangiamo, come ci vestiamo, dove andiamo. I suoi album sono come un gigantesco social ante litteram – continua il direttore artistico Denis Curti – Ma per lui ogni foto è una messinscena, è il risultato finale di una visione precisa. Quello che capisce Lartigue prima di altri è che la camera vede in modo diverso rispetto agli occhi”. Solo così è stato in grado di catturare sulla pellicola una bambina per aria, nel mezzo di un salto, o la ruota di un'automobile che sgomma durante una gara, una partita di tennis, sua zia che cade dalla motocicletta in una strada di campagna.
Durante le due guerre mondiali, con i paesi dilaniati dalle bombe, Lartigue diceva: “Mon universe c’est un immense parc”. Il mio universo è un parco gigantesco. “Il suo amico, il fotografo Ferdinando Scianna racconta che durante la seconda guerra mondiale, Lartigue scrisse in uno dei suoi diari: ‘Nonostante il dramma, non posso non notare che queste bombe creano un certo ritmo sonoro’. La gente muore e lui nella sua campagna circondato dal bel mondo nota il ritmo sonoro delle bombe – continua Curti – Era un pazzo. Come si fa a non perdonarlo, a non accettare questa sua dimensione di contraddizione?”. Se fosse vivo, Lartigue oggi trascorrerebbe l’isolamento nella sua meravigliosa casa nel sud della Francia. “Probabilmente avrebbe fotografato questo lockdown e ne avrebbe colto gli aspetti più intimi e più romantici. Rappresenterebbe il lusso della sua vita, quella felicità che temeva potesse sfuggirgli dalle dita da un momento all’altro”.
Curti è particolarmente legato all’artista: “Il primo dei diecimila libri di fotografia che ho comprato, è suo. Ero giovanissimo, ad Arles e non l’avevo neanche riconosciuto. Ricordo ancora la passione, la curiosità che ho sempre avuto verso questo fotografo. Quando ho scelto di realizzare questa mostra, ce n’erano già altre tre pronte su di lui. Io ho voluto crearne una da zero, per raccontare un Lartigue nuovo. Per noi la mostra inizia adesso – spiega – Se riusciremo ad aprirla a metà maggio, la mia speranza è di tenerla fino a dicembre. Non l’ha ancora vista nessuno. Ci auguriamo che anche il governo francese abbia la sensibilità di accordarci il proseguimento della mostra, che per noi è importante e strategica. I turisti faranno fatica a venire a Venezia, quindi dobbiamo aspettare che si torni a una pseudo normalità, con tutte le precauzioni del caso”.