Vivere per ridersela. Luca Ravenna ci racconta la stand up comedy, e come si riprenderà
“A Roma i comici lavorano meglio, Beppe Sala è il solo politico italiano interessante per la satira, per liberarci della mascolinità tossica ci vogliono comici che raccontino quanto soffrono il cliché del maschio alfa”
A marzo, quando negli Stati Uniti qualcuno cominciava a far notare che il Covid non andava sottovalutato, Vulture scrisse che la stand up comedy sarebbe stata travolta e, forse, trasfigurata per sempre. “Noi comici siamo un lusso, siamo inutili”, parola di Roy Wood Junior. E dire che laggiù la stand up comedy (Suc) ha alle spalle una lunga tradizione di venerazione e venerati maestri. In Italia come va? Come tutto: chissà, chissà domani. Senza considerare che la Suc da noi è ancora un intrattenimento di nicchia, di pochi per pochi. Uno di loro, uno dei migliori e più applauditi, è Luca Ravenna. L’ho scoperto, in una sera di mezza estate romana, l’anno scorso. C’era uno spettacolo di stand up comedy, io ero titubante – pensavo: questo non è un paese per Louis C.K., del resto non è più un paese per C.K. neanche l’America, quindi cosa perdo tempo a fare. E invece poi è salito sul palco, ha parlato di ebrei, sesso, milanesi, romani che se sei educato ti dicono che sei “frocio” e ti propongono di fare uno spettacolo sul fatto che lo sei, e ho riso molto, moltissimo, da pazzi. Non c’era un vasto pubblico, la scena a Roma è, mi spiega lui, “come l’indie rock quando arrivarono i Cani”. Piena di infelici e pure antipatici? “Diciamo underground. Le serate a Milano sono organizzate molto meglio, ma a Roma il livello è più alto, si vedono performance migliori. E si lavora anche meglio”.
Ravenna, ma lei scherza, le hanno fatto un incantesimo? “Sono lucidissimo”.
Sarà che è milanese. “E quando lavoravo a Milano a Quelli che il calcio, capii che la vita d’ufficio non faceva per me, e che volevo fare stand up, quindi mi trasferii qui. E vivo benissimo. Sono fortunato, i miei ritmi e orari di lavoro mi permettono di godermi la città, il tempo, la calma”.
Ma un milanese puro come sopporta di lavorare con i romani? “Bisogna conquistare la loro fiducia e poi è fatta, si entra in famiglia e si lavora bene e tanto”. E se uno non è un conquistatore? “Allora si scontra con la pigrizia romana, che non è un cliché: esiste. Ma c’è di peggio, e me ne sono accorto lavorando nei locali. I romani schifano i soldi, e piuttosto che lavorare cinque minuti, preferiscono non guadagnare”.
Non generalizziamo, o si agiteranno i comitati di quartiere. In caso, cosa direbbe a sua discolpa? “Che non tornerei a Milano, sebbene mi manchino molto i panini di Gattullo (a Roma i panini non li sanno fare) e l’Inter allo stadio. Non tornerei perché sono innamorato di Roma, qui vivo bene, la città con me è stata generosa”.
Com’è stato vedere Milano sgretolarsi da Roma, in queste settimane? “Terribile, come vuole che sia stato?”. Mi dica qualcosa di politico. “Neanche per sogno. Se c’è una cosa della quale ero convinto prima e, in queste settimane, mi sono convinto ancora di più, è che per rimettere le cose a posto dovremo tutti concentrarci sulle nostre competenze, e affinarle al meglio”.
Ma come può un comico ignorare la politica? “Io non la ignoro affatto, la seguo con grande passione, però mi rendo conto che fare satira su personaggi che sono di loro delle macchiette, è un’impresa suicida. Per creare un personaggio antitetico a Salvini, dovrei creare un politico con le spalle larghe, che parli poco e faccia tanto: non farebbe ridere”.
Capisco. È la solita vecchia storia: i politici hanno superato i comici. Praticamente, vi hanno rubato il lavoro. “Il turning point è stato quando Pingitore disse: chiudiamo il Bagaglino perché Berlusconi è passato dall’altra parte. Eppure…”.
Eppure? “Prima del virus, stavo studiando Beppe Sala. Perché nessuno lo criticava, era il simbolo del boom, dell’amministrazione virtuosa, del nuovo modello da riproporre dappertutto. Adoratissimo soprattutto dai professionisti della generazione di mio padre, gli ex yuppies che trent’anni fa erano i padroni della città, collezionavano donne ed erano più Ezio Greggio che Jerry Calà. Ho patito moltissimo la retorica del feeling good vibes di Sala, e mi sarebbe piaciuto, forse, farne qualcosa, uno sketch, magari uno spettacolo, magari qualcosa di più ampio sulla città”.
Dicono tutti che il Covid ha fatto saltare il modello Milano. “Vedremo. Io so solo che, vista da qui, negli ultimi anni Milano non mi ha entusiasmato. I calzini arcobaleno, l’esemplarità, la retorica del successo, Instagram. Il male che Instagram ha fatto a Milano non l’ha fatto neanche l’eroina a New York negli anni Ottanta”.
Mi spiace, lettori, che voi non possiate godere dell’imitazione di Sala che Ravenna mi regala, ma posso dirvi che a un certo punto gli ha fatto dire: “Bene gli omosessuali, benissimo gli immigrati, ma non venite a parlarmi di meridionali perché faccio un casino”.
“Per concludere, Sala è uno interessante, sul quale fare satira sarebbe possibile perché si regge sui suoi piedi, e allora gli si può girare intorno”.
Mi dica come mai non riusciamo più a essere perfidi. Come mai questo non è un paese per C.K. ma neppure più un paese per Monicelli. O lei si immagina che tra due anni qualcuno girerà “I nuovissimi mostri”?
“Macché. Risi e Monicelli ci facevano a pezzi e quella loro spietatezza è perduta. Da un certo punto in poi, soprattutto dopo Mani Pulite, la comicità italiana ha preso due strade, o quella morbida di Zelig, o quella misericordiosa di Benigni, e così da una parte ci sono Aldo Giovanni e Giacomo che fanno uno spettacolo cartoonesco bellissimo, sano e senza critica sociale, dall’altra gli epigoni dei Vanzina, che hanno trascinato tutto su vizi e vizietti”. Mi scusi, sa, ma Vanzina ad avercene. “Ho detto epigoni infatti”. Anche voialtri stand up comedian siete epigoni, però. E di ironia su vizi e vizietti lei ne ha sempre fatta tanta, ne è un esempio perfetto il suo ultimo spettacolo (strepitoso, recuperatelo su Vimeo, costa 2 euro, si chiama Luca Ravenna, è stato prodotto da Indigo e Dazzle).
Mi parli del sesso, ché mi pare un punto centrale del suo lavoro. “Nella stand up, e nella comicità in generale, gli sketch sul sesso sono come le canzoni d’amore nel pop”.
Ora, lettore, magati tu t’immagini un bavoso monologo su quanto se la tirano le donne, e quanto sono umorali, e incontentabili, e incomprensibili, eccetera. Invece, Ravenna parla degli uomini, e parla delle défaillances, e di quanto è orrendo il sesso per i maschi, che (cito dal suo ultimo spettacolo) “dai sedici anni in poi fare l’amore con una donna è un inferno, per noi significa pensare tutto il tempo non venire, non venire, non venire”.
È stato il #metoo, Ravenna, a farla ravvedere? Sarà pur servito a qualcosa di buono.
“Io non tollero il racconto della virilità, e non conosco nessun maschio che abbia davvero il chiodo fisso del sesso. Tutti soffriamo del cliché del maschio alfa”. Dev’essere faticoso, sì. “Liberarci da quel cliché migliorerebbe le relazioni con le donne e soprattutto con gli uomini. Una cosa che mi stupiva quando ero più piccolo era che nessun uomo famoso, se interrogato sul punto, ammetteva mai una défaillance. E invece se cominciassimo a farlo, a ridere della sessualità maschile, delle performance, degli obblighi, degli intoppi, si ammorbidirebbe tutto lo stare al mondo, si desacralizzerebbe il sesso”.
A questo giornale, Irene Soave del Corriere ha ricordato che Verga si definiva un “ingravidabalconi”, e cioè uno di quelli che se ne stava sotto il balcone a guardare le donne affacciate e straparlare di quanto e come le avrebbe strapazzate, segretamente contento del fatto che quelle non potessero scendere in strada. “Aveva ragione Verga, siamo tutti degli ingravidabalconi. Che sollievo poterlo dire”.
Però alla fine del suo spettacolo dice che se potesse vivere un giorno solo, come una farfalla, farebbe le stesse cose di sempre ma senza trattenersi dal dire quello che pensa. Fa l’esempio della reaction alla Instagram Story di una tizia, dice che anziché mandare una fiamma alla foto di uno stormo, manderebbe una frase precisa, e cioè “Ti voglio sborrare negli occhi” (scusate).
“Sì, però ha saltato la premessa”. Uh, pardon. Me la ricorda? “Dicevo in quel pezzo che nel mio solo giorno di vita sarei stato molto più sincero e quindi parecchio più stupido”.
La stupidità fa ridere? “No. Si ride immedesimandosi o nelle storie e situazioni in cui ci si è trovati o in quelle nelle quali non ci si vorrebbe trovare mai. Godiamo nel vedere un personaggio in difficoltà, perché ci è finito al posto nostro”.
Si è mai autocensurato? “No. Sto attento a quello che dico sul palco perché detesto la provocazione, non voglio passare per un mattacchione che dice la prima cosa che gli passa per la testa. In questo la stand up è fantastica, ti consente letteralmente di scrivere il tuo pezzo insieme al pubblico, ogni spettacolo è una prova delle tue battute, ogni interazione con gli spettatori ti fa venire in mente delle soluzioni diverse. La quarta parete è stata sfondata, ormai è chiaro, e lo spettacolo funziona quando per il pubblico diventa una serata tra amici. Per questo credo che la Suc non si possa fare in diretta streaming: senza nessuno in sala, noi giochiamo una partita a tennis senza pallina, come in Blow Up di Antonioni. E spero che i locali riaprano presto, si risollevino, e ci richiamino, perché organizzare i nostri spettacoli costa poco e rende tanto”.
Si è mai sentito inutile o inopportuno in queste settimane? “No, ma sono stato attento. All’inizio, nel momento più tragico del lockdown, quando i morti non facevano che aumentare, mi sono fermato, eppure in tanti mi scrivevano chiedendomi di farli ridere. E allora qualche diretta Instagram mi sono sentito di farla anch’io. La gente ha bisogno di ridere. Sempre”.
Diritto di ridere, anche.