La provincia italiana di Gerry Johansson
In “Meloni Meloni” 199 immagini in bianco e nero ricostruiscono un’unica passeggiata nel paesaggio italiano, senza persone, ci sono solo i segni della loro presenza
“Meloni Meloni. Guidando verso il Lido di Dante vedo il cartello con la coda dell’occhio. Che cartello meraviglioso! I miei pensieri vanno a parole come melodia e malinconia. Mi sento subito di buon umore, parcheggio l’auto e inizio a camminare lungo via Brasca”. Con questa breve nota, Gerry Johansson introduce il suo ultimo libro intitolato, appunto, “Meloni Meloni” (autoprodotto, 2020). Il grande fotografo svedese, nato 75 anni fa nella contea Sud-orientale di Halland, tra il 2014 e il 2019 è tornato per alcuni periodi nel Ravennate per il suo legame di amicizia e collaborazione con Guido Guidi. L’incontro con il prosaico cartello scritto a mano, appoggiato a terra e sostenuto dal tronco di un albero, risale al primo di questi soggiorni, ma in quelli successivi Johansson non ha mancato di tornare a camminare lungo quella stessa strada di campagna.
Il libro raccoglie 199 immagini in bianco e nero, che ricostruiscono un’unica passeggiata nel paesaggio della provincia italiana, dove a dominare non è la linea dell’orizzonte, ma lo sguardo ravvicinato agli oggetti e agli spazi quotidiani. La staccionata, il cancello, il tronco, il palo del telefono, il canale, le sedie da giardino. Ma anche l’ombra dell’albero sul muro della casa, la catasta, la ringhiera, l’oca di cemento. Non ci sono persone. Solo i segni della loro presenza.
Johansson fa in Italia quello che in passato aveva fatto nella sua Svezia, ma anche in Germania e nei Stati Uniti: osserva gli oggetti del “Man-altered Landscape” attraverso la loro disposizione geometrica, ricomponendo un ordine visivo dentro ciò che all’occhio comune appare casuale e disordinato. Ciascuna immagine presenta un ritmo proprio al suo interno e un altro ritmo scandisce, invece, la sequenza di fotografie che assume la forma di un flusso ben amalgamato. Gli oggetti ritornano. E, visti da diverse angolazioni, diventando, con l’avanzare dello sfoglio del libro, man mano più familiari.
Il tono del racconto-non racconto è medio, tutt’altro che epico o retorico. La dimensione ridotta delle immagini, appena superiore alla dimensione del negativo originale 6 per 6 centimetri, accentua questo senso di understatement estetico. I contrasti minimi dei grigi, secondo la lezione di Robert Adams, nume tutelare di Johansson, confermano l’impressione di raffinata medietà.
È la cifra di Johansson, vista in profondità in quello che, forse, è il suo capolavoro, “American Winter” (Mack, 2018), dove il paesaggio degli stati uniti è indagato nella meno fotogenica delle stagioni, ma che garantisce al fotografo le condizioni di luce che meglio esaltano la sua poetica.
Così, anche in “Meloni Meloni”, le cose appaiono nella loro umile quotidianità. Un rampicante che si attorciglia attorno a un palo di cemento. Una palma nana. Un pino stilizzato di tubo al neon, appoggiato a un pino marittimo. Una vecchia felpa che sembra svuotata del corpo del suo proprietario. Non sono metafore. Eppure rimandano a una dimensione interiore, difficile da descrivere a parole, più facilmente evocabile con accordi musicali in tonalità maggiore. Una dimensione che, forse, potremmo chiamare con la più proibita delle parole: felicità. E non ci riferiamo a quella prodotta dal piacere delle piccole cose della vita. Non si tratta di minimalismo estetico ed emotivo. Le visioni del fotografo Svedese, certo, non hanno il lirismo dei venti che schiaffeggiano i fiordi o l’intensità dei drammi di Ibsen o Bergman. Eppure parlano in modo persuasivo di una maestà: quella delle cose e del tempo. Delle cose perché, a sorpresa, ci sono. E del tempo: perché, a volte, sa passare riempiendo anziché svuotando la vita.