L'ingovernabile
“Come una storia d’amore”, abitare a Roma significa non poter stare altrove. La ricerca dell’infelicità nel nuovo libro di Nadia Terranova
Dicono che Sex and The City sia irrimediabilmente invecchiato. Lo dicono come fosse un demerito, ché invecchiare è cosa buona se si è Barolo o Jane Fonda, e hai voglia noi a brigare contro la giovinezza e i da essa desunti canoni giovanili, efferatissimi. In Satch c’erano troppa ricchezza, disimpegno, vestiti. Troppo frufru. In verità, e prima di ogni cosa, c’era New York, e quello che New York faceva a quattro ragazze, specie una, la protagonista, Carrie, che a un certo punto diceva di uscire con lei, con la città, e di flirtarci e farci l’amore come se fosse un uomo, un ragazzo, un tipo.
“Questo tipo esce oggi”, ha scritto Nadia Terranova su Twitter, giovedì, come fosse un ragazzo, e si riferiva al suo nuovo libro, che è una raccolta di racconti in cui lei, alla stessa maniera di Carrie, è uscita con la città e ci ha litigato, scopato, amoreggiato, chiacchierato, cenato, divorziato. Passeggiato anche, sì, ma poco e mantenendo una certa distanza, in ottemperanza casuale alle nuove norme vigenti, visto che i racconti non sono, in larga parte, recenti. La Roma di questo libro non è la città sconfinata, dilagante e sempre, a un certo punto, riconoscibile da una strada, da una rovina, da un palazzo. Non è la Roma delle passeggiate che bastano a ritrovare la felicità, né quella della grande bellezza o della grande bruttezza, e meno che mai è la Roma che avrebbe potuto essere e non è, come quella che raccontava Dolores Prato, che ci camminò dentro per mesi, ogni giorno, per capire il fiume, il Papato, Dio, l’universalità, lo Stato, e scrivere la sua requisitoria contro il modo raffazzonato in cui si fece l’Italia Unita, contro le capitali, i piemontesi, l’urbanesimo. Questo libro succede tutto in una zona precisa, tra Pigneto e Casalbertone, dove di cupole non c’è né l’ombra né il rumore, così come di Tevere non c’è né il puzzo né la spinta assassina. E’ una Roma senza centro, senza rimandi, senza spasso, senza cardini, e che non ha nessuna delle bellezze che fanno svenire i giapponesi, o bloccare gli scrittori, ma che nonostante questo è impossibile da cambiare, sulla quale non si può intervenire, e che non si può che accettare, forse è anche appropriato dire subire. La violenza di Roma questa è, il modo in cui ti obbliga a starle a un sorpasso di distanza, lei avanti, tu indietro, lei guida, tu seguace. L’ingovernabile. Nadia Terranova è partita da un fatto generale, dalla relazione che tutti abbiamo con la città nella quale viviamo, che è una relazione prima di assoggettamento dell’ambiente a noi, e poi di sinergia tra noi e l’ambiente, e l’ha trasferita dentro Roma, dove quell’assoggettamento è possibile, sì, ma solo all’incontrario, e di sinergico non c’è mai niente, è sempre tutto disequilibrio, squilibrio, sproporzione, dismisura.
“Come una storia d’amore” (Giulio Perrone editore), una raccolta di racconti in una zona precisa, tra Pigneto e Casalbertone
Tra Terranova e Roma c’è un laccio che assomiglia al matrimonio, però non ne ha la fine certa – “non guardo più nessuno con superiorità, soprattutto ora che so come finisce un matrimonio. Non per disamore: finisce, e basta”. E assomiglia all’amore, ma diversamente dall’amore esiste indipendentemente da lei, perché “la città c’era prima di te e ci sarà dopo di te, il tuo passaggio le è stato lieve”. Come l’amore finisce, però non passa.
Roma è un tormento eterno, una tortura costante, perché è irrisolvibile, e infatti questi dieci racconti sembrano un romanzo, come il romanzo rimangono appesi, interrogano, incasinano tutto, raccontano e basta, e hanno anche la forma del romanzo tradizionale, se pure in scala – una volta Terranova ha detto una cosa molto saggia sul romanzo tradizionale: “Non si capisce cos’abbiano tutti, contro il romanzo tradizionale, a parte che è difficile scriverlo”. Questi racconti sono come un romanzo tradizionale e sono “Come una storia d’amore” (titolo perfetto, in questa penuria di titoli perfetti, o almeno adatti, che è l’editoria italiana), perché raccontano una, dieci, cento, mille impossibilità come se non fossero i pali che sono, ma delle cartine, delle chance – “Devi solamente cercare altre strade. L’unica è raccontarsela come una storia d’amore”. Le storie d’amore non portano da nessuna parte, però ti tengono lontano dal burrone, ed è questo il senso di quella simulazione, di quel “come”; la salvezza.
Roma è violenta e dittatoriale, assoluta e soverchiante, indomita e matrona, ma a parte che d’essere accettata, talvolta amata, non impone altro. E’ il lato bello, se preferite positivo, della sua incapacità d’essere democrazia, del suo essere rimasta impero e capitale del mondo infame: ti lascia essere chi sei, come sei, come vuoi, barbone o aristocratico, straniero o locale, nomade o sedentario, disperato o felice. Felici, ecco, a Roma se ne vedono pochi e sebbene ci sia grande calca di allegri, tutti hanno un disincanto negli occhi, una tristezza caduta in fondo al cuore, tutti camminano inchiodati alla propria irrilevanza (non che l’essere umano sia irrilevante solo a Roma, ma da nessuna parte più che a Roma si è costretti a farci i conti: che conti poco e che non sei indispensabile te lo sussurrano i muri, i vicoli, le fontane, le strade antiche, i baristi, il ritardo della metropolitana, il lavoro che non è mai urgente).
“Celebrerei gli infelici, oggi. Infelici gli infelici, che eludono le ricorrenze perché nessuno ha insegnato loro come celebrarle”
L’impossibilità di essere felice è il centro della maggior parte dei racconti, e Terranova ne dice la tristezza ma pure il sollievo. In esergo al racconto che lo fa in modo più esplicito, “La felicità sconosciuta”, c’è questo meraviglioso Bufalino: “E dire che io e lui abbiamo un nemico in comune: lui me, io pure”. Parla di una ragazza che sta sempre dalla parte giusta e ha “una bontà di cuore che si prende tutta la faccia”, così sana da non suscitare invidia, così forte da soffrire senza farlo pesare a nessuno, eppure infelice. Perché la felicità è un impegno, un onere grosso, una disposizione innaturale, e alcuni di noi sono pieni di arsenali programmati per distruggerla, per certi altri quell’arsenale è la vita stessa, con i suoi casi, con il suo caos. Quant’è bella la storia di Veronica, che inizia con lei che s’inginocchia davanti al forno, lo apre e piange perché è Natale, ha fatto le orate e il rumore di due ragazzine spensierate per le scale del suo palazzo, il rumore canticchiato le ricorda che lei non può lasciarsi andare come loro, non può sospendere tutto anche se il dottore le dice che è solo una questione di tempo, che il trauma che ha subito l’ha congelata – “lei ha il freezing, signora”, “e quanto tempo dura questo frigorifero? Aveva chiesto per educazione, non perché vedesse l’orizzonte”, perché “la felicità è un dovere e chi non adempie deve presentare apposito documento con i suoi validi motivi”.
Questo consente Roma: d’attorcigliarsi a un ricordo, di non riprendersi da un trauma, di non guarire, di non certificarsi felici, o allegri, a adatti, o resilienti, di restare fermi al rimpianto – “passa, prima o poi, il rimpianto? Un giorno smettiamo di immaginare come sarebbe andata se non fosse andata com’è andata? La vita coincide davvero con la speranza?”.
A Roma c’è un fiume per annegare e una metropoli per calare a picco restando sempre vivi e integri, ed è il lato scandaloso della libertà. Perché anche di questo dice Terranova, in questo libro, delle conseguenze tremende della libertà, della solitudine che costa e che la rende, in fondo, così rinunciabile per tutti (guai ad ammetterlo, a parole ne siamo tutti alfieri, ma proviamo davvero a essere liberi, sopportiamo davvero la radicalità che comporta esserlo?).
L’impossibilità di essere felice è il centro della maggior parte dei racconti, e Terranova ne dice la tristezza ma pure il sollievo
Vent’anni fa e pure dieci, si arrivava a Roma con un’illusione che Terranova spiega perfettamente, essendo stata tra quei ragazzi che, all’inizio del millennio, arrivarono qui convinti di potersela svignare dall’efficientismo lombardo: “Ricordo la superiorità con cui guardavo i miei amici che andavano a studiare a Bologna e a Milano. Li guardavo dall’alto e ridevo sui loro racconti di efficienza, di dimensione umana delle cose, di centri pedonalizzati e vivibilità. A me non importava di vivere bene, mi importava di vivere al centro del mondo”. Come in una storia d’amore, però, il centro a un certo punto si fa gorgo, l’autarchia si fa isolamento, la specificità si fa insolenza. Quant’è difficile, quant’è gravoso, quant’è spossante.
C’è un rimborso? Forse no. Però c’è il tempo, che a Roma esiste davvero, lascia i segni, ed è così abbondante grazie al concorso di tutti, dei pigri, dei matti, dei ritardatari, degli inefficienti che rendono ogni appuntamento evitabile, rimandabile, perdibile, imprimendo alla vita il tono beffardo che merita, e che serve a sopportarla.
C’è un racconto, “Il primo giorno di scuola”, che parla di un corso di ebraico. Inizia così (gli incipit li riportiamo perché sono tutti belli, sembrano stornelli): “In un settembre esageratamente triste, mi ero messa in testa di studiare due cose, l’ebraico e le persone felici”. Naturalmente, finisce molti punti a zero per l’ebraico – “una lingua che si scrive al contrario è perfetta per me, che ho bisogno di invertire le cose” – e quindi finisce con una domanda, anzi due: come si dice felicità in ebraico? Nominare qualcosa vuol dire farla nascere o farla morire?
Quel corso di lingua, la destrutturazione dell’ordine costituito che comporta seguirlo, il disimparare i propri fonemi che comporta inevitabilmente, è ciò che Roma fa a chi vi si trasferisce, indipendentemente dalle intenzioni o dagli scopi che ha.
Come in una storia d’amore, abitare qui significa non poter stare altrove, crearsi una lingua per altri incomprensibile, e quindi odiosa, appagarsi in una specie di abbrutimento, trovare felice l’infelice o, se preferite, per dirla come la direbbe uno psicoterapeuta un po’ scarso, di quelli che non hanno mai né ragione né ragioni però hanno le soluzioni, trovare un complice delle proprie nevrosi.
A Roma c’è un fiume per annegare e una metropoli per calare a picco restando sempre vivi e integri, ed è il lato scandaloso della libertà
Diversamente dall’ebraico, dove le parole devono chiudersi per forza perché se non si chiudessero sarebbero blasfeme, “oserebbero assomigliare a Dio che è infinito, mentre serrandosi ci ricordano che appartengono al linguaggio, che a sua volta appartiene a noi, che siamo finiti”, il parlato romano è un mozzare continuo, un lasciare a metà, un indefinire, un disperdere. Il parlare romano è un fiume, è il Tevere, e a seguirlo si perde ogni disciplina, ogni orientamento, ogni senso, ogni combattività. Ci si arrende al fatto che, prima o poi, si finisce tirati giù, come Gabriella Ferri, la voce di “Te vorrei dà tante cortellate”, che morì cadendo da una finestra, e non s’è mai capito se sia stato un incidente o un suicidio, forse tutte e due le cose, come si canta in certe canzoni sui barcaroli morti affogati.
Gabriella Ferri aveva gli occhi tristi e affamati anche quando cantava, che era la cosa che più amava fare e che era nata per fare, la stessa tristezza incurabile di Monica Vitti, tutte e due consapevoli che non si sfugge alla morte, che la felicità non dura, e forse non esiste, proprio come una storia d’amore, entrambe disposte a farsi sbranare perché arrese al gorgo, all’infelicità che questa città non omette ed ha l’onestà di dire che è la sola cosa vera della vita, sulla quale ti propone di ballare, esagerare, scomporti, dissennarti. Scrive Terranova: “Celebrerei gli infelici, oggi. Infelici gli infelici, che eludono le ricorrenze perché nessuno ha insegnato loro come celebrarle e non hanno un alfabeto emotivo, perché non sanno gioire quando c’è da gioire né mostrarsi contriti quando c’è da dire addio, perché sbagliano voci, le frasi e gli stati d’animo confondendo funerali e compleanni”. Per Pasolini, l’infelicità è una colpa. Per Terranova, graziata e condannata da questa città che le consente di continuare a sentirsi messinese, l’infelicità è un diritto. E solo chi ha vissuto una lunga storia d’amore che poi è finito ma non è passato, sa concederlo. Roma lo concede, avendo amato per secoli un fiume che le ha messo le mani alla gola centinaia di volte.