Nella crudeltà dei romanzi di Richard Yates nessun uomo cade mai per davvero
Storie di falliti che insistono a volercela fare
“Ci furono caldi pomeriggi d’estate nei quali Lucy si tormentava pensando a lui come a un fallito. Se ne stava seduta fingendo di leggere, ma in realtà osservava con attenzione la sagoma della sua schiena che, curva sulla sua matita, si muoveva impercettibilmente, e per un’ora lasciava che la sua immaginazione facesse del suo peggio. Non sarebbero mai venuti fuori quindici libri da quest’uomo incerto, dedito agli sbagli e all’autocommiserazione. Al massimo ce ne sarebbero stati altri due o tre, ciascuno peggiore del precedente; poi lui avrebbe trascorso il resto della vita a parlare e a bere, a trovare lavoro come insegnante e a mostrare ogni volta la stessa inadeguatezza che aveva mostrato alla New School. Sarebbe morto presto oppure tardi, ma sarebbe morto sapendo che, a eccezione di un solo romanzo, non aveva avuto niente da dire. Lei si disprezzava per quel modo di pensare. Ma se credeva così poco in lui, cosa ci faceva lì?”.
Arriva sempre, nei romanzi di Richard Yates, questo terribile momento. O meglio, ogni romanzo di Richard Yates – compreso Il vento selvaggio che passa (minimum fax, 508 pp., € 19 euro) – è la storia della lenta degenerazione che prepara questo preciso momento. Il momento in cui la nudità coglie impreparati. Il momento in cui le persone appaiono per ciò che sono. Il momento in cui tutto è in piena luce e non si può più mentire. Quasi mai, però, l’epifania coglie gli esseri umani rivelandoli a se stessi. Troppo facile. Il verdetto yatesiano è più sottile e cruento, intriso di inesorabilità mortale: la verità è sempre in terza persona. Gli effetti della verità disarmeranno proprio chi ci credeva di più – chi ha sacrificato tutto in nome di un altro, chi si era illuso di aver trovato uno spiraglio per fuggire la noia, la mediocrità o un destino insulso – ma l’epifania sarà sempre l’affermazione della verità degli altri, spogliati crudamente mentre nemmeno se lo immaginano e anzi, mentre perseverano nell’ignarità più patetica a essere quello che sono credendo di essere tutt’altro. L’epifania sopraggiunge senza un perché, d’improvviso, quando una vocina, sussurrando e insinuandosi come un serpente, dirà: è tutto inutile, tutto ridicolo, tutto irreparabile. Dirà: guarda quella donna, guarda quell’uomo – è un fallito, è una fallita.
I falliti di Yates sono dei falliti aspirazionali, cioè falliti doppiamente. Ognuno di essi crede di essere il centro di qualcosa di grandioso e non vede l’ora di scoprire cosa. Accade nel capolavoro Easter parade e nel bellissimo Revolutionary Road. Tutti i protagonisti di Cold spring Harbor aspettano la svolta. Ogni singolo racconto dello scrittore americano prospetta un’umanità pronta a spiccare un balzo che dà per certo, perché ognuno, ottusamente, crede gli sia riservato un futuro di meraviglie ed emozioni all’altezza della propria sicura grandezza. Insomma, i falliti di Yates sono fatti per noi – noi oggi, noi adesso, uomini e donne social-izzati e autonarrativi – e passano il tempo a raccontarsela, a credere alle immagini di se stessi che producono per gli altri, ad aver fede nelle promesse che sentono esser state fatte loro da un destino generoso. Ma poi la vita se ne andrà, i giorni saranno inutili e il dolore stupido, e l’unica forza che dovranno trovare sarà quella di sopravvivere a se stessi, esattamente come accade anche ai Davenport ne Il vento selvaggio che passa, romanzo che racconta il doloroso pantano di Lucy (ricca di famiglia) e di Michael (ricco di talento). Entrambi dissiperanno e assisteranno allo spietato spettacolo di non riuscire a essere quel che speravano. Ma nei romanzi di Yates – non bastasse tutta questa crudeltà – nessuno cade mai per davvero. Perché tutti arrancano. Tutti insistono a volercela fare: Michael a diventare un poeta, Lucy la persona interessante che non sarà. Ma chi è partito lottando per ottenere ecco che si ridurrà a lottare per accontentarsi, fronteggiando la battaglia impari con la verità di sé. Perché la vita degli uomini – ci dice Yates – è questo: riciclare mille volte la stessa battuta e passare il tempo a rimettersi in sesto. E non ha importanza come vanno a finire le storie. Perché non vanno a finire da nessuna parte.