Il Virus in galleria
Ben prima della pandemia il mercato dell’arte a malapena riusciva a sopravvivere. Ora il business ha preso il sopravvento
In un dotto elzeviro del 7 maggio scorso sulla Stampa lo storico Giovanni De Luna riportava in primo piano quella “categoria temporale che il mondo globalizzato aveva come rimosso”. Si tratta del concetto di futuro che, prima della pandemia, pareva una realtà “schiacciata su un presente enormemente dilatato”. Si aveva come la certezza che a contare non valesse che “una concezione del tempo orientata intorno alla soddisfazione di bisogni esistenziali o di curiosità effimere, in una dimensione culturale usa e getta, affollata di luoghi comuni facili da consumare e da dimenticare”.
Jerry Saltz, Premio Pulitzer per la critica nel 2018, racconta come il mondo dell’arte subirà effetti devastanti a causa della pandemia
Quest’idea di presente assoluto e forsennato è proprio quello che ha informato e condotto da tanto tempo il sistema dell’arte con tutte le sue subalterne componenti, schiave di una sorta di assolutismo del presente, una temporalità ansiosa totalmente sprovvista di visioni e di teorie per consegnarsi più comodamente ai riti del possesso del presente. E i riti sono da sempre sotto gli occhi di tutti per chi li vuole vedere e intendere. Raccontano dell’affanno e delle forzature per lo più vissute in chiave di affermazioni economiche paradossali e arbitrarie, costruzione di valori il più delle volte ingiustificati, disprezzo dei tratti culturali e dei ruoli sociali dell’arte usata piuttosto e soltanto come categoria svuotata di valori autenticamente trasmissibili per poterla meglio glorificare in chiave d’ingordigia speculativa.
Ora le chiacchiere si levano scomposte, “Tutto come prima”, “Niente come prima”, e paradossalmente chi tenta di proporre ricette, modificazioni, correttivi più o meno sensati sono proprio coloro che hanno sin d’ora ideato, gestito e manipolato i giochi e che solo adesso, dopo aver tentato di chiamarsi fuori, osservano dalla distanza e pretendono con forza di proporci le loro poco credibili ricette in chiave di salvezza e saggezza tardiva.
Proprio come in tutti gli ambiti dell’economia mondiale duramente provati dalla situazione attuale, il già fantasmagorico mondo dell’arte e i suoi luccicanti bagliori e gli spiazzanti e arbitrari esiti cultural-commerciali conoscono in questi giorni l’amarezza dei tragici titoloni e la crudezza delle previsioni più nere. Il noto critico americano Jerry Saltz, Premio Pulitzer per la critica nel 2018 e giornalista del Village Voice, non ha mezze misure. Racconta come il mondo dell’arte subirà effetti devastanti a causa della pandemia, lasciando pochi sopravvissuti. Proprio lui, per averci trafficato da tanto tempo, racconta: “L’infrastruttura che tiene il mondo dell’arte è già in bilico”. E prevede che si potranno salvare soltanto artisti e gallerie legati a megastrutture commerciali, mentre la grande massa delle gallerie medie sparirà o dovrà radicalmente ridimensionarsi proprio come le mondanissime Fiere dell’Arte, divenute appuntamenti difficilmente realizzabili e da sempre esageratamente costosi. Il suo articolo su Vulture titola perentorio e macabro “We are at the last days of the art world”.
Il direttore artistico delle Serpentine Galleries di Londra propone al governo la riscoperta di un grande progetto di arte pubblica
In qualche modo più possibilista si dimostra Hans-Ulrich Obrist, direttore artistico delle Serpentine Galleries di Londra, che propone al governo londinese la riscoperta di un grande progetto di arte pubblica ripensando a quello attuato dagli Stati Uniti negli anni della Grande depressione. Si tratta per Obrist di rispolverare il modello del Public Works of Art Project (Pwap) all’interno del Work Projects Administration (Wpa).
Franklin Delano Roosevelt negli anni Trenta del New Deal dette il via a un grandioso progetto di arte pubblica sostenendo economicamente poco meno di quattromila artisti alla produzione di migliaia di opere d’arte capaci di tener viva una vasta comunità creativa, contribuire alla valorizzazione e alla scoperta anche di grandi talenti, e d’innescare un processo creativo dai risvolti vitali e di conseguenza economici. Obrist suggerisce al governo inglese di fare “qualcosa del genere”. Suggerimento che per ora non risulta essere stato ascoltato e messo in atto.
Giorno dopo giorno il protrarsi a tempo difficilmente determinabile della situazione di stallo e di ritorno alla libera possibilità di scambi, incontri e ovviamente vendite per le gallerie private, porta vertiginosamente alla chiusura di spazi espositivi sempre molto costosi. Migliaia di gallerie da New York a Londra, da Hong Kong a Berlino, affrontano una drammatica chiusura per molti senza ritorno.
La sconvolgente situazione aguzza però l’ingegno dei maggiori e abbienti player verso soluzioni di salvaguardia utili a rassicurare collezionisti più o meno facoltosi per non sentirsi abbandonati alla ormai tangibile decrescita dei decantati sicuri investimenti. Fidarsi del web è la nuova parola d’ordine, occhi aperti sulle Viewing Online Rooms (Vor) ipotetica àncora di salvezza per gallerie, collezionisti e artisti.
Il gallerista tedesco David Zwirner ha lasciato il progetto Platform. Desireé Maida in Artforum racconta di come nel tentativo di mantenere vivo e operante almeno una parte del sistema galleristico si provi a lavorare attraverso la sua costosa Sala di Visualizzazione online, offerta a gallerie minori newyorchesi come 47 Canali, Bridget Donahue, Bureau, Company, David Lewis, Elijah Wheat Showroom, Essex Street, James Fuentes, JTT, Magenta Plains, Ramiken, Queer Thoughts. Zwirner, dopo l’edizione newyorkese, sta progettando future edizioni di Platform per le gallerie londinesi e via via per quelle di altre capitali dell’universo artistico accomunato da eguale sofferenza.
Larry Gagosian, che la rivista britannica ArtReview definiva già nel 2004 il più grande mercante del mondo e che – non bastasse – Le Journal des Arts riteneva nel 2011 la personalità più influente nell’arte mondiale, fonda la Gagosian Art Advisory una nuova attività di consulenza e gestione delle collezioni per clienti istituzionali e grandi collezionisti dice per “…. migliorare le relazioni con i nostri clienti, far crescere la nostra portata globale e, infine, massimizzare la nostra piattaforma e mostrare le visioni creative negli anni a venire”. Deborah Gimelson, già alcuni anni fa sulla rivista 7 Days, giudicava Gagosian più un broker che un gallerista, uno che agiva con il modus operandi caratteristico degli imprenditori immobiliari e dei produttori cinematografici. “Non è tanto interessato a trovare un giovane e brillante artista che sgobba in una soffitta, è più interessato a rivendere il lavoro di quell’artista dopo che è stato scoperto e acquistato da altri! La rivendita è dove si fanno i soldi”.
Gagosian ha ovviamente lanciato anch’egli un progetto online, battezzato Spotlight, che presenta virtualmente un artista della galleria alla settimana. Si mostra una sola opera, pronta alla vendita e disponibile su gagosian.com, e solo per quarantotto ore si fornisce indicazione dei prezzi e tutto il resto.
Massimo De Carlo, che con Kaufmann Repetto e con pochi altri rappresenta il modello italiano di mercante internazionale, suggerisce di mantenere i nervi saldi, “fare quello che si è sempre fatto e cercare di trasformare un handicap in un valore che contribuisca alla crescita dell’arte”.
Lo scintillante, frenetico mondo delle fiere dell’arte pareva sino a oggi il magico e imprescindibile meeting point planetario, in grado di creare e consolidare valori, generare scambi, produrre ricchezza in un gioco perenne di rimbalzi da un capo all’altro del mondo. Gli appuntamenti continui ed incalzanti, dall’Arco Madrid all’Armory Show New York, Art Dubai, Tefaf Maastricht, Art Basel Hong Kong, Art Cologne, Frieze New York, Photo London, Art Basel per citarne soltanto alcuni. De Carlo dice alla Stampa: “Quel che conta per noi è viaggiare e partecipare alle grandi fiere internazionali. Entrambe le cose purtroppo ci sono ora negate”. Le sue stupefacenti gallerie di Milano, Londra e Hong Kong si tramutano forzatamente intanto in un’offerta online, la stessa che tentano di adottare anche grandi istituzioni ed i maggiori musei del pianeta.
Sono proprio questi a mostrare con evidenza maggiore il rilievo e la crudeltà dei correttivi da adottare, la profondità delle restrizioni, dei tagli di budget, delle rescissioni dei contratti con addetti, operatori, tecnici e personale in genere nel tentativo davvero difficile di resistere in qualche modo all’amputazione di risorse se non addirittura alla messa in discussione del proprio ruolo e quindi dell’opportunità della propria stessa esistenza.
L’ipotetico viaggio di nazione in nazione, di continente in continente alle maggiori istituzioni museali non può far altro che mostrare tentativi omologhi di riduzione all’essenziale, tagli forsennati di budget, licenziamenti senza remissione, difficoltà di sottomissione alle lente e costose visite virtuali o fisiche, quelle che in qualche modo polverizzano il fascino del contatto con le opere d’arte, annullano lo stupore dei teatrali spazi fisici dei musei, i loro Bookshops e persino i loro coffee shop.
Il MoMa di New York ha dimezzato il budget per le mostre sino a giugno 2021, tagliato quello delle pubblicazioni e la didattica
Proprio le istituzioni che si propongono da sempre come specchio dell’opulenza museografica mondiale sbattono in primo piano difficoltà e contraddizioni che riverberano sull’intero sistema dell’arte. Il MoMA a New York gioca da pietra di paragone dall’alto della sua posizione di istituzione dalle vaste capacità economiche tali da farlo considerare uno dei musei più ricchi al mondo. Da non molto tempo ha portato a termine un’impressionante, molto criticata e inutilmente faraonica ristrutturazione da quasi cinquecento milioni di dollari, affidata allo studio degli archistar Diller Scofidio + Renfro e Gensler. In una videoconferenza, il direttore Glenn Lowry ha annunciato intanto il taglio di 45 milioni di dollari per i progetti delle mostre da considerare il “primo passo per eliminare ogni spesa possibile”, ha dimezzato il budget per le mostre sino a giugno 2021, tagliato generosamente quello delle pubblicazioni. Certo il MoMA non è a rischio di chiusura, disponendo di una dotazione miliardaria. Exibart ricorda tra l’altro che il chairman del MoMA è quel Leon David Black, ceo del colosso delle Private Apollo Global Management, che “gestisce oltre 300 miliardi di dollari in società non proprio limpidissime che vanno dalla vendita di armi alle carceri private”. Intanto l’intero dipartimento didattico è stato chiuso col licenziamento di un centinaio di addetti, proprio nel momento in cui il MoMA aveva lanciato il progetto sul proprio futuro ruolo educativo. Dimostrazione lampante della poca considerazione in cui son tenuti gli aspetti sociali e persino didattico-culturali se un portavoce del museo può dichiarare: “Passeranno mesi, se non anni prima di tornare ai livelli operativi necessari per richiedere servizi didattici”.
Facile passare in rassegna e verificare con un certo raccapriccio la profondità delle ferite che la pandemia sta causando e causerà su tutti gli intricati aspetti da definire tecnico-logistici della futura gestione dei fatti artistici, anche se risulta più che evidente e visibile come e quanto l’intero artworld, i suoi irritanti eccessi, la plateale freddezza e avidità contenessero da tempo i segni di un virus letale, l’annuncio di una catastrofe non lontana, i chiari sintomi di un’imminente implosione anche se non tanto radicale e repentina.
Adriana Polveroni scrive: “Il mondo dell’arte è diventato una grande bolla, un magnifico soufflé farcito soprattutto di banconote”
Mario Perniola, nel suo “L’arte espansa”, pochi anni or sono scriveva di destabilizzazione del mondo dell’arte e parlava di “bolla speculativa” pronta a scoppiare. Gli sforzi che da settant’anni il microambiente culturale aveva cercato di sopravvivere tentando (o fingendo!) di rinnovarsi “rincorrendo a mode più o meno effimere” mascherate a volte con nomi quasi provocatori per mantenere il sistema sotto il controllo di “pochi galleristi, collezionisti e mediatori rapaci, con la complicità delle istituzioni pubbliche”.
Trasformazione di artisti sul modello dei divi dello spettacolo, l’annullamento della critica d’arte, la scomparsa di pensiero e teorie sostituita da operazioni mediatiche e di comunicazione volte tutte a glorificare l’imperante assioma che recita torvo “ciò che costa vale”.
Tony Godfrey, nel suo nuovo documentatissimo libro“ L’arte contemporanea”, edito da Einaudi, mette in chiaro come gli eccessi poco spiegabili dei prezzi stellari per opere di artisti talvolta modesti e ripetitivi sono in realtà spiegabilissimi se – per esempio – si sta a sentire la figlia del super miliardario, imprenditore e banchiere Pete Peterson, che racconta di come a New York ci siano “montagne di soldi” e ragazzi che guadagnano sino a trenta milioni di dollari prima dei quarant’anni, e considerano le opere d’arte “beni posizionali”, oggetti che fanno prestigio e “ti fanno sentire parte della gente che conta”. Giovani altrettanto abbienti si trovano a Singapore, Londra, Miami, Shanghai, una comunità di pari, totalmente avulsa da qualsiasi rapporto col resto del mondo. Con residenze a “New York, Hong Kong, Mosca, Mumbai, i super ricchi di oggi costituiscono sempre più una nazione a parte”.
Li si incontra in perpetui e ripetitivi viaggi alle fiere dell’arte, quelle d’alto bordo s’intende, Art Basel Miami, Frieze, Dubai con la loro aria di indifferenza e superiorità a ostentare opulenza, di stand in stand, di suite in suite, di jet in jet. Adriana Polveroni, nel suo caustico libro “Lo Sboom”, già da tempo poteva scrivere che “il mondo dell’arte è diventato una grande bolla, un magnifico soufflé farcito soprattutto di banconote”, un terreno ideale per speculatori, riciclatori di somme da capogiro, investimenti mafiosi, trasferimenti internazionali di criptovalute, giochi sporchi in cui il valore reale dell’opera d’arte viene ignorato, sottomesso e divorato da un’ingordigia senza limiti.
Mercanti, case d’asta, musei e fiere in concorso hanno stretto una morsa letale, proprio quella che ha portato l’economista Donald Thomson a dichiarare che quest’ingordigia speculativa è “un gigante dai piedi d’argilla in attesa di precipitare”. Accontentato.
Un po’ alla Gregory Bateson dei metaloghi: “F. Papà cosa vuol dire sognare? P. Vuol dire immaginare una storia. F. Una storia vera? P. Una storia che vorresti fosse vera. F. Papà cosa sogni? P. Sogno vita, arte, gioia, cultura, futuro. F. Non capisco papà! Tutto questo è già vero. P. via dal ‘tutto come prima’. F. Non capisco papà”.