Istruzioni per narratori
Credere nella scrittura come spazio in cui stare. Il (non) manuale di scrittura di Vanni Santoni
In una delle sue conferenze, Flannery O’Connor distinse con la sua consueta tomistica chiarezza tra coloro che “vogliono essere scrittori” (la foto in quarta di copertina, le interviste in prima serata, i firmacopie…) e chi invece “vuole scrivere”, chi desidera immergersi in un processo che costituisca una dimensione e un fine in sé (sebbene naturalmente comprenda sempre una comunicazione col mondo esterno) e non un mezzo per qualcos’altro, che sia migliorare il mondo o portarsi a letto qualcuno. La letteratura si è sempre interrogata su quanto e come si possa imparare a cogliere e assecondare l’impalpabile alito che le Muse soffiano sulla nuca, sulla differenza (se esiste) tra scrivere bene e scrivere davvero, dall’Ars Poetica di Orazio alle stilettate di Shakespeare contro gli autori che si arruffianano il pubblico. E nel mondo del web e dei social ai vecchi miti romantici (e agli snobismi per reazione) si affiancano e sovrappongono nuove scappatoie che cullano la vanità e promettono di consegnare formule per il successo editoriale. Talvolta possono persino riuscirci, se si desidera puntare sulla prima opzione indicata dalla O’Connor, ma tutto questo ha poco o niente a che fare con la gloria, come la definirebbero i greci, con l’aderenza faticosa, e magari misconosciuta, della nostra persona all’immagine della verità che cerchiamo di esprimere e additare. Come diceva Thomas Mann, uno scrittore è una persona per cui scrivere risulta più difficile rispetto agli altri.
Se è tale cara, inestimabile difficoltà che si cerca anzitutto di accogliere, facendosi lavorare da essa, allora La scrittura non si insegna, libello minimum fax di Vanni Santoni, romanziere e editor che ha tenuto a battesimo alcuni degli esordi più significativi dell’ultimo decennio (basti pensare a Luciano Funetta o Andrea Zandomeneghi) è certamente una lettura estremamente utile, ricca di consigli empirici (dal rapporto decisivo con le riviste, ai concorsi o al lavoro di editing) e che soprattutto crede molto nella scrittura come spazio in cui stare. “Si tratta, né più né meno, di un cambiamento del proprio stile di vita, e per una cosa del genere servono tempo, pianificazione, rinunce, compromessi e contrattazioni”. La sua validità è in fondo quella di tante confidenze e intuizioni di scrittori che non riducono a sistema universale le loro verità particolari ma, al pari di un vecchio artigiano o il Dio della Genesi, girano intorno a una sedia o alla creazione del mondo, ne saggiano le gambe e borbottano “Bene”.
Il primo fondamentale strumento, il mare nel quale allungare braccia e gambe e fare il morto, è trasformare anche la propria prospettiva passiva di lettore, ribaltarla in attività e leggere da scrittore. Ecco perché immergersi anzitutto in Proust o Wallace: “Il fatto è che l’aspirante scrittore deve anzitutto cambiare il proprio approccio alla lettura. Così come un neonato che viene alla luce deve prendersi un paio di schiaffi sul culo (o, in tempi moderni, una grattata sulla schiena) onde aprire i polmoni, allo stesso modo questi macroromanzi saranno i primi schiaffi sul culo dell’aspirante scrittore”.
Lo stile di Santoni non solo riprende volutamente tono e passaggi delle sue effettive lezioni di scrittura, ma, per chi ne apprezza la narrativa, anche le divertenti parentesi e le fughe in diagonale nei pensieri e dialoghi dei suoi personaggi (“Salta fuori, guarda un po’, che tutti – a parte Colm Tóibín, che si chiude per un mese l’anno in una baita sui Pirenei con una cassa di whisky, metodo ammirevole ma che non è detto funzioni per tutti – scrivono tutti i giorni”) che però mai minano qui la netta percezione di controllo e profondità d’orizzonte: “Obiezione: perché tanta roba contemporanea? Tu sei un contemporaneo, no? Certo, sarebbe meglio se partissi dai greci e dai latini, sviluppassi una buona base medievistica e rinascimentale (scrivendo in italiano non puoi certo farne a meno!), passassi con attenzione lungo i secoli successivi (come sarebbe a dire, non hai letto L’Adone del Marino?)”. Un percorso che comprende anche un implicito – ma consapevole elogio della traduzione letteraria e aiuta a liberarsi da quelli stereotipi che Chesterton definiva “surrogati di pensieri altrui”, lo stesso che a sua volta distinse tra prodotto e opera d’arte sottolineando come il primo sia utile solo quando completato, mentre l’arte sostiene e alimenta chi la realizza mentre viene creata.
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