Rimozioni ideologiche. Perché non riusciamo ancora a fare i conti con la storia

Giuseppe Bedeschi

Fascismo, comunismo e cattiva memoria. il nuovo saggio di Marcello Flores

L’ultimo libro di Marcello Flores, Cattiva memoria (ed. Il Mulino), affronta un tema di grande rilevanza, che è indicato assai bene dal sottotitolo: “Perché è difficile fare i conti con la storia”.

  

Flores ricorda la reazione indignata che una nobile personalità come Emanuele Macaluso ebbe di fronte alla risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa. “Lo voglio dire anch’io: – affermò Macaluso – quel voto sulla risoluzione del Parlamento europeo, che, di fatto, equipara nazismo e comunismo, è semplicemente una vergogna. (…) Con quella risoluzione si vuole dare un colpo alla storia. Cancellarla”. Al fondo di questa reazione di Macaluso c’è un’idea – che è stata espressa, ricorda Flores, da molte personalità della sinistra – secondo la quale il comunismo, anche se ha commesso dei crimini (che si condannano, ovviamente), ha una giustificazione storica, morale e politica, che il nazismo invece non ha e non potrà mai avere. In altre parole: i regimi comunisti, allorquando si macchiarono di gravi e inaccettabili violazioni della democrazia e della libertà, tradirono i loro ideali, i loro valori, le loro promesse.

 

Alle giuste considerazioni che Flores fa a proposito di tutto ciò, io vorrei aggiungere qualche altro elemento di riflessione. Credo che si debba ricordare ai vedovi del comunismo che le “gravi e inaccettabili violazioni della democrazia e della libertà” commesse dai regimi comunisti, furono in realtà spaventosi genocidi: la deportazione in massa dei kulakì, cioè dei contadini ricchi (ricchi perché possedevano una mucca o due capre), voluta da Stalin, fece alcuni milioni di vittime. A ciò bisogna aggiungere i gulag, con centinaia di migliaia di prigionieri in condizioni disumane; le fucilazioni in massa ordinate da Stalin, che colpivano gli stessi bolscevichi, gli ufficiali dell’esercito (l’Armata Rossa venne decimata); i grandi processi contro gli ex capi comunisti (Zinoviev, Kamenev, Bucharin, ecc.), in cui i condannati confessavano incredibili delitti. Tutto questo seguito di misfatti (descritti ormai da un’ampia letteratura) fa del comunismo sovietico uno dei regimi più sanguinosi della storia. La responsabilità di tutto ciò era solo di Stalin? O non era piuttosto di un sistema, iniziato da Lenin, che aboliva il pluralismo politico, la libertà di opinione, e che istituiva il più duro dispotismo di un solo partito, cioè del suo gruppo dirigente, cioè del suo segretario generale? L’equiparazione fra nazismo e comunismo potrà dare fastidio a molti: ma resta il fatto che entrambi i sistemi si basavano sulla negazione completa dei diritti più elementari e della dignità degli uomini.

   

Un altro tema assai interessante sollevato da Flores è quello dell’atteggiamento assunto da molti intellettuali italiani verso il fascismo, dopo la sua caduta. Gran parte dell’intellighenzia, che era stata fascista, aveva, per così dire, “rimosso” (in senso freudiano) il fascismo. Frutto di questa “rimozione” fu il linciaggio di cui fu oggetto uno storico, Renzo De Felice, per il fatto che egli affrontò lo studio e la ricostruzione del “ventennio” non sulla base di formule o di slogan, ma sulla base di una vastissima documentazioni (archivi, memoriali, e quant’altro). Naturalmente, questo era il modo di procedere di uno storico serio. Apriti cielo! Parecchi storici e parecchie personalità della sinistra proclamarono che De Felice era un fascista: “Inutile usare perifrasi – scrisse Nicola Tranfaglia –: ci troviamo per la prima volta in maniera chiara e univoca dopo il 1945 di fronte a una completa riabilitazione del fascismo”.

  

Dietro a tutto ciò c’era, a mio avviso, un imbarazzo: quello di negare una verità certo spiacevole, ma indubitabile: e cioè che fino alla guerra di Etiopia il fascismo godette di un vasto consenso nel nostro paese, e che a opporsi al regime erano ristrette ed eroiche élite (inviate al confino, incarcerate, spiate).

  

Non sono mancati, in questo contesto di “rimozione”, episodi significativi. Un grande studioso come Norberto Bobbio, esponente dell’antifascismo di ispirazione azionista, e padre nobile della cultura democratica, vide sbucare dall’Archivio centrale dello stato una sua lettera al Duce (dell’8 luglio 1935), in cui egli si difendeva dall’accusa di antifascismo (“Dichiaro in perfetta buona fede che l’accusa su riferita […] non è soltanto nuova e inaspettata ma anche ingiustificata […] [Essa] mi addolora profondamente e offende intimamente la mia coscienza di fascista”). Di fronte al ritrovamento di questa lettera Bobbio ci rimase molto male, e si batté il petto con grande tristezza. “In questa lettera – dichiarò poi – mi sono ritrovato improvvisamente faccia a faccia con un altro me stesso, che credevo di aver sconfitto per sempre”. Bobbio esagerava nel rimorso, perché, dopotutto, egli aveva una grande attenuante: i regimi totalitari inducono i sudditi a cercare la benevolenza del despota.

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