Il “Canto degli alberi” di Antonio Moresco, il più mahleriano degli scrittori
Vivere un trauma spaventoso, fino in fondo
Per quegli strani capitomboli che ci impone il destino, Antonio Moresco si è trovato, durante la pandemia, isolato e solo in una casa di Mantova. Sì proprio a Mantova, sua città natale non amata, anzi definita “il luogo per me più doloroso e traumatico che ci sia al mondo”. E cosa fa uno scrittore murato dentro un piccolo appartamento non suo, isolato e impedito nel desiderio di fuga? Scrive. Se poi si chiama Antonio Moresco, cammina anche. Persino quando camminare senza meta e apparentemente senza ragione è rigorosamente vietato. E infatti cammina di nascosto e di notte, eludendo pattuglie e mettendosi a parlare con gli unici esseri viventi disposti a rispondergli: gli alberi. Alberi come lui murati, di quelli che misteriosamente nascono e si sviluppano nei posti più impensati, in una fessura del muro, in un tombino, su un vecchio tappetino dove il vento ha portato piccoli semi capaci di far germogliare una forma vivente, per quanto stenta e contorta.
I vicoli periferici di una città non sono il luogo ideale per gli alberi. Ma la natura è così, sorprendente ed esplosiva, silenziosa e determinata. E ha molte cose da raccontare, cose che solo un poeta sognatore riesce a intendere. “Canto degli alberi” (Aboca, 275 pagine, 14 euro) è la saga melodiosa, ma non per questo meno drammatica, di un incontro notturno e segreto fra un uomo – lo chiameremo il “prigioniero di Mantova” – e questi alberi cittadini che tanto hanno da insegnare a chi ha la pazienza di mettersi in sintonia, chi si considera un “randagio” consapevole di quanto “le nostre vite sono da riguadagnare e riconquistare, le nostre vite e tutto ciò che lega tra di loro i corpi, le menti, le persone, le generazioni, le stirpi”. Perché altrimenti siamo gente che sembra viva, ma invece è già morta. Cos’hanno allora da dire gli alberi alla disgraziata genía degli uomini, che soffre persino quando non si rende conto di farlo? E che non imparerà niente dal virus terrorizzante, ma anzi tornerà a inquinare e distruggere, a tormentare e sopraffare alimentando “autocrazie politiche sorrette dalle economie criminali… in attesa di una spartizione di bottino che alla fine non ci sarà”?
E’ un capovolgimento quello che predicano gli alberi, totale e doloroso. Si tratta di estirpare le proprie radici e ribaltarsi. Si tratta di vivere un trauma spaventoso, enorme, fino in fondo. Ma qui mi fermo nel riferire la “trama” di questo libro che, come sempre in Moresco, è quasi irraccontabile. Perché non è un libro di trama, ma di emozioni, ricerca, sentimenti, invettive, musiche (la musica misteriosa che il prigioniero di Mantova, attraverso la finestra, sente suonare al pianoforte in un altro appartamento). E infatti nel titolo si parla di “canto”. E’ un libro-sinfonia con i suoi allegretti, i suoi andanti, i suoi rondò. Un libro che genera magie. Come questa: mentre lo stavo leggendo, alla radio trasmettevano la Terza di Mahler. E il conduttore del programma raccontava che Mahler, inizialmente, aveva dato un nome ai sei movimenti della sua sinfonia. Il movimento che stavo ascoltando era il secondo: “Quello che i fiori del prato mi raccontano” (cui seguivano: “Quello che gli animali della foresta mi raccontano”. “Quello che l’uomo mi racconta”. “Quello che gli angeli mi raccontano”. “Quello che l’amore mi racconta”).
E ho pensato che Antonio Moresco è il più mahleriano degli scrittori. E non solo perché fa parlare gli alberi come Mahler i fiori, ma per l’improvviso impennarsi del racconto che sprofonda poi nel sottovoce, per la struttura ampia, piena di ritornelli, di larghi, di fughe e ritorni e, soprattutto, perché – se non qui in altri libri – anche Moresco ne sa parecchio di consonanze ultraterrene, e di angeli.
E l’amore? Proprio mentre il prigioniero inveisce che “la stupidità e la follia degli umani è senza limiti”, quegli umani che visti dagli alberi appaiono “piccoli, brutti e deformi” e soprattutto “ciechi” rispetto alla verità delle cose, e le cose ultime in particolare, l’amore è il cemento di questa scrittura o forse, per restare in tema, la sua radice. “Apro gli occhi, anche se li avevo già aperti”, dice a un certo punto il prigioniero di Mantova. L’obiettivo è farli aprire agli altri: che anche gli altri abbiano orecchie per la voce silenziosa degli alberi e occhi per essere una cosa sola con la propria visione. “L’amore tutto crede, tutto spera, tutto sopporta…”. Ma Moresco non è San Paolo, e la sua speranza s’infrange contro una sconfinata, tragica consapevolezza: che – dopo la grande paura del virus – torneremo alla normalità “senza cambiare niente, senza inventare niente, in attesa di venire trascinati nelle estreme guerre nucleari e batteriologiche per il possesso delle ultime risorse naturali rimaste”.
Morale della favola, allora, non sarà che hanno ragione gli alberi quando, in uno dei tanti colloqui col prigioniero, si augurano che “questo flagello stermini tutti gli esseri della tua specie e che gli alberi tornino a coprire ogni cosa con il loro silenzioso abbraccio”?