La cartomante di Fellini
Gli amori, le amicizie, la reputazione, ma soprattutto il quadro astrale. A cento anni dalla sua nascita, il regista di “8 e 1/2” raccontato attraverso gli occhi di chi gli leggeva il futuro
Dei tanti libri usciti nel centenario di Federico Fellini, “La cartomante di Fellini” è indubbiamente il più gustoso, come è giusto che sia, per un’autrice che ha conosciuto il regista a sedici anni, e che lui ha frequentato e aiutato a crescere per quarant’anni. Marina Ceratto è figlia della più eterea stella del cinema italiano, l’altera e sognante Caterina Boratto, riscoperta dopo una lunga assenza dagli schermi per “8 e 1/2” proprio dal Faro, soprannome del regista conferitogli dai collaboratori, tra venerazione e ironia.
Marina Ceratto è figlia della più eterea stella del cinema italiano, l’altera e sognante Caterina Boratto, la “signora misteriosa” di “8 e 1/2”
Tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta Boratto era la star di film popolari con Tito Schipa, Vittorio De Sica e Amedeo Nazzari, tra molti altri. Aveva conosciuto Fellini come co-sceneggiatore giovanissimo di “Campo dei fiori” con Aldo Fabrizi, grande successo commerciale. Erano film melodrammatici in cui il suo incanto femminile aggiungeva, tra lacrime e strazi, un tocco di sublime eleganza, da cinema dei telefoni bianchi. Biondissima, diafana, sfuggente, irraggiungibile, l’attrice è ritratta dal regista come la “signora misteriosa” di “8 e 1/2”. Il suo fascino per il regista è racchiuso in una frase, sentita di sfuggita alla reception dell’hotel delle Terme, mentre il personaggio incarnato (più che recitato) dalla Boratto sussurra: “Ti perdono. Ti perdono tutto”. Roso da un senso di colpa monumentale per tutta la vita, il regista lo esprimeva spesso con questa frase: “Il mio ideale è poter dire la verità senza far male a nessuna”.
La figlia della diva divinizzata aveva sedici anni quando la madre ha chiesto al severissimo Istituto Cabriniano di Via Aldrovandi a Roma il permesso per la figlia di marinare di tanto in tanto la scuola per frequentare il set del film “8 e 1/2” a Cinecittà. Di una beltà più moderna ma sempre sfolgorante (vedere per credere “Bloc notes di un regista”), Marina Ceratto è stata brevemente attrice, poi scrittrice e giornalista per tanti giornali e riviste italiani. In questo libro si firma per la prima volta Marina Ceratto Boratto, un doppio cognome scoppiettante come una revolverata, un colpo estraneo alla sua innata leggerezza svagata. Non l’aveva usato, il doppio cognome, nemmeno per il libro dedicato alla madre, “Caterina Boratto, la donna che visse tre volte” (Edizioni Sabinae, 2017) in cui propone un’autobiografia della madre nella quale assume la sua voce in prima persona. Uno degli sforzi fatti da Fellini per favorire la crescita della giovane Marina era di aiutarla a liberarsi dalla fagocitante fusione con la madre mitica. Operazione non del tutto riuscita.
Conoscere Federico Fellini in età adolescenziale, essere in parte e per lungo tempo plasmata da lui, seguirlo in cinque film, fargli da consulente ufficiosa per questioni di catechismo e teologia cattolica, essere avviata alla cartomanzia proprio da lui, e restarne amica per tutta la vita: vicenda singolare. Il libro è stracolmo di chicche, aneddoti, riflessioni, osservazioni intime, come una pignatta messicana di dolci succulenti; le quasi cinquecento pagine si leggono di un fiato. Un capitolo è dedicato a Giulietta Masina, donna, attrice e moglie tra le meno comprese della storia dello spettacolo italiana.
Aveva un modo di fare, Giulietta, che la rendeva in apparenza assai concreta, realista, pragmatica, con una calata romanesca che faceva a pugni con la sua educazione dalle orsoline. Era stata tirata su da una zia benestante e brava borghese al cubo, che l’aveva circondata di benessere e di tutti gli strumenti per scoprire quale destino artistico avrebbe avuto. Non era mai in dubbio che sarebbe diventata artista. Prima Giulietta studia danza, poi pianoforte, ma questa non era la sua strada. Alla fine la zia decide per la carriera di attrice. Il mistero dell’allontanamento dalla famiglia d’origine della futura Gelsomina, a quattro anni, ha dato adito a una teoria. Sarebbe la figlia di una tresca del padre con una bambinaia, perciò spedita a Roma dalla zia vedova senza figli, che poteva regalarle una vita agiata. Tornava a trovare la famiglia in Emilia ogni estate, e mai tralasciava di fare visita all’antica tata.
E’ curioso che la Ceratto, attenta all’astrologia, non abbia notato che Giulietta aveva sì l’ascendente in Ariete (la personalità, la faccia che presentiamo al mondo), segno di fuoco dominato da Marte; ma non era tutto. Il segno solare (il carattere) era Pesci, cioè sotto la protezione di Nettuno, un segno fantasioso, sognante, geniale, sensibile. Se il loro matrimonio ha retto cinquant’anni, è perché Giulietta e Federico avevano un legame spirituale-artistico profondo, misterioso. Il mondo dello spettacolo la bollava come una sciuretta piccolo-borghese che “sta alla cassa”, come dicevano i più maligni, o come una palla al piede del grande Maestro, sia pure “brava come tutte le attrici brutte”, come l’ha descritta rudemente in un’intervista Pupi Avati. E invece Giulietta per Federico era “il destino”, come ha detto e scritto più volte. Che non fosse formosa e opulenta come Sandra Milo, o la Tabaccaia popputa di “Amarcord”, non incideva sulla tenuta del loro patto indistruttibile. Certo, l’attrice che sognava una carriera alla Olivia De Havilland, tutta abiti firmati e allure soignée, prima di trovare la gloria planetaria come “la Charlot femmina”, diede parecchio filo da torcere, da brava figlia anche di Marte, al marito fedifrago con la coazione a ripetere, prima di pacificarsi. Si auto-medicava con qualche whiskino, e sgomentava gli ospiti a cena tirando frecciate rabbiose al Faro per le sue “donnette” e l’abbandono del letto coniugale. Noto per le sue sfuriate iraconde alla moglie-attrice sul set, in queste circostanze Fellini con massima mitezza rispondeva, “Giulietta se continui così prendo il mio piatto e vado a mangiare in cucina”.
A Marina e a tanti altri, Federico usava dire che ammirava i maomettani (nessuno li chiamava “islamici” a quel tempo) per la possibilità di avere un harem, il suo ideale. Realizza questo sogno banalotto a modo suo; aveva un’amante fissa (la celebre “farmacista” Anna Giovannini) e una girandola cangiante di “favorite” che cambiavano di film in film. Colpisce la frase di Donatella Damiani, la pin-up in pattini a rotelle di “La città delle donne”, magra e popputa, l’ideale di Playboy; sentendosi dare della “favorita” tra le infinite donne di quel film, risponde: “Non sono la favorita; sono l’unica!”, ma anche lei sarà presto archiviata come le tante che l’avevano preceduta. Con altre donne, invece, il regista instaurava un’amicizia con stima profonda, come con la giornalista culturale Leonetta Bentivoglio, sua collaboratrice per dialoghi, idee e coreografia per “La città delle donne” e “E la nave va”. Sapeva distinguere, Fellini; era una bomba di profondità.
Ceratto scrive di essersi sempre difesa dal fascino fagocitante di Fellini, sin dal primo momento. Lottava per non farsi inglobare dalle orde d’innamorate di Fellini, spesso e volentieri considerate, con molti altri prima vezzeggiati e poi congedati, “le vittime di Fellini”. Ceratto nota con ironia e una punta di rimprovero che l’ammaliatore usava simili voli pindarici a ogni nuova, appetitosa sirena che incontrava: “Che sguardo e che sorriso ha questa donna! E che ne dite del vento che sembra avere nei capelli? Potresti essere la mia metà o è solo un sogno? Mi sento un vero e proprio adolescente”. Però, bisogna dire, non si ripeteva mai, se non nell’entusiasmo, secondo chi lo conosceva bene. Le lodi erano sempre riferite alla donna che aveva di fronte. E sempre coglieva un aspetto dirimente di quella persona precisa, nascosta persino a se stessa.
La figlia di Caterina non voleva essere accomunata con la folla di adoranti fanciulle di ogni età, per orgoglio, per amor proprio. Non si è certi che sia riuscita a non farsi coinvolgere emotivamente dal grande seduttore. E’ commovente la pagina del libro in cui descrive il suo sgomento quando la madre le fa leggere la lettera d’amore adorante scritta con impeto al “Registone” (come lo chiama Totò), grata e abbagliata da chi le aveva ridato vita e carriera con un colpo della sua bacchetta magica. Fellini “scantonò le profferte” di Caterina con una letterina affettuosissima. Amava il mito ritrovato, non la donna reale impigliata in guai matrimoniali e patrimoniali. Chissà se conosceva il motto dello scrittore Nelson Algren: “Mai andare a letto con una donna con guai più grossi dei tuoi”.
Marina conosce Fellini in età adolescenziale, lo segue in cinque film, e proprio da lui inizia ad appassionarsi alla cartomanzia
Fellini era sollevato dall’amicizia di Marina e della madre per la “moglie morganatica” Anna Giovannini; anche nell’ultima malattia, raccomanda alle due donne di non abbandonarla; lui non ha più la forza per seguirla come aveva fatto per trentacinque anni. La Carla di Sandra Milo in “8 e 1/2” è la versione sublimata della sua “Paciocca” o “Cielone azzurro”, come la chiamava. Diceva di non essersi mai abbandonato “all’ebbrezza dell’innamoramento.” Aveva la qualità – o era un difetto? – di mettersi sempre un po’ di fianco alle emozioni, e la sua curiosità per il fenomeno in sé lo proteggeva dalla perdita di controllo. Il suo trasporto fisico esaltante per Anna, condito di una gelosia feroce i primi anni, non gli impediva di capire dove stavano le sue fondamenta. Anna era l’amante ottocentesca, come quella del Gattopardo, soffice, abbondante, giunonica, dedita a estetisti e parrucchieri, trascurando di procurarsi almeno “un cespo d’insalata” per l’arrivo di Federico, Nino Rota e altri ospiti. La copriva di ammirazione, appartamenti, abiti, gioielli e panna montata. E’ l’amante sognata da Capannelle, il personaggio de “I soliti ignoti” che ambiva a permettersi una tutta sua, “status symbol” per i maschi italiani della sua epoca.
Giulietta non era in discussione. Mai. “La Paciocca” impara tardi questa verità, durante la cerimonia degli Oscar nel 1993, e il suo Federico ringrazia solo e soltanto la moglie. L’unica, vera passione di lui era per la sua arte, e per chi, come Giulietta, ne era ispirazione e parte fondante. Ceratto descrive la corsa a casa di Anna il giorno dopo gli Oscar per consolarla, intontita dai farmaci e con il cuore spezzato. Pare che alla fine l’amante l’abbia persino maledetto, venendo a sapere delle tante altre amanti avute dal “suo” uomo, unendo al dolore la beffa. Il tono della memorialista Ceratto in tutto il libro è finemente sbrigativo: “La verità è che era un genio, ma a volte era anche un po’ stronzo. Chissà perché si finiva sempre per perdonarlo?”. Questa frase è scritta a lettere maiuscole addirittura sul dorso del libro. Si vede che la casa editrice l’ha trovata vincente, sfrontata q.b. per favorirne l’acquisto.
Nel libro si testimoniano i segreti dei diversi “scivoloni” di Fellini, come lui definiva le sue depressioni gravi. Il primo incombe mentre finisce di girare “La strada”. Durante le difficili riprese della “favola truce”, in grande economia e sempre ”on the road”, si rende conto che Zampanò è lui. Il crudele saltimbanco che martirizza e violenta e strapazza la piccola, semplice, innocente Gelsomina, è il ritratto delle sue colpe. E’ la trasformazione, attraverso la follia dell’ispirazione artistica, dei peccati che lo tormentano. Ha detto in più occasioni, Fellini, che “La strada” è un film profondamente, anche se inconsapevolmente femminista. Diceva che era il ritratto di fin troppi matrimoni: la prevaricazione del forte sulla più debole, ritenuta alla stregua di una proprietà di cui disporre a propria volontà. I tempi cambiano, il femminicidio resiste. Verso la fine del film, il regista è travolto da una grave depressione. Giulietta nel frattempo subisce il fascino di Richard Baseheart, nel quale crede di intravedere il vero Matto, acrobata ed equilibrista con il viso d’angelo in “La strada”. Zampanò uccide il Matto, amatissimo da Gelsomina, spezzando lo spirito della piccola vagabonda.
Traumatizzato dall’improvvisa illuminazione delle sue zone oscure, scopre la psicanalisi. Tra il freudiano e lo junghiano
Il romagnolo, traumatizzato dall’improvvisa illuminazione delle sue zone oscure, scopre la psicanalisi. Prima frequenta il freudiano Emilio Servadio; poi con più profitto l’immenso junghiano Ernst Bernhard. Grazie all’ebreo berlinese, profugo dal nazismo, subisce una rinascita che cambierà per sempre il suo cinema, facendo fiorire il suo ingegno e la sua arte. Non tornerà mai più alle sceneggiature fatte e finite, alle storie tradizionali. Nascono altri capolavori di segno sempre più originale nelle qualità formali e nella sintassi, libera dalle strettoie dei tre atti classici. Impara a fidarsi dei sogni, e a trasferirli sullo schermo come nessun altro regista al mondo.
“La cartomante di Fellini” affronta anche la tribolata faccenda del rapporto con Ennio Flaiano. E’ di routine tra i tanti ammiratori dello scrittore aforista, umorista e sceneggiatore, condannare il regista per aver scippato la gloria che in realtà apparterebbe al pescarese. Ha collaborato sin dal primissimo film di Fellini, “Luci del varietà”, co-diretto con Alberto Lattuada e scioccamente trascurato nella filmografia felliniana. Poi collabora a “Lo sceicco bianco”, “I vitelloni”, “Il bidone”, capolavoro misconosciuto con un torreggiante Broderick Crawford, “La strada”, “Le notti di Cabiria”, “La dolce vita”, “81/2”, e l’ultima fatica insieme, “Giulietta degli spiriti”. La leggenda narra che la fine del rapporto avviene a causa di un volo per Los Angeles per il lancio di un film, in cui il regista è in prima classe, e gli sceneggiatori in turistica. E’ verissimo che il Premio Strega per “Tempo di uccidere” tolse il saluto al Premio Oscar; appena sceso negli Stati Uniti, Flaiano prese il primo aereo che lo riportava in Italia. Con fine intelligenza e sapienza cordis, Ceratto riconosce che la rottura traumatica tra i due - che vede molti tifosi dello scrittore rivendicare per il loro beniamino l’alloro di “vero genio”, scippato della gloria dal grande seduttore - è fuori strada. La verità è che Flaiano, un uomo ombroso e permaloso quanto geniale, pensava di aver sprecato troppo tempo con il cinema, e colse la prima provocazione (colpa del produttore che pagava i biglietti e non certo di Fellini stesso) per prendere la porta e dedicarsi alla scrittura “seria”.
Poi c’è il problema dei troppi galli nel pollaio. Flaiano diceva che all’inizio con Fellini gli sceneggiatori, erano tutti “di pari grado”. Con il tempo e i premi piovuti sull’autore dei film, il regista assume un ruolo più centrale e dominante. La storia del cinema è questa: vince chi gira e non chi scrive. In ogni caso, tra i tanti film sceneggiati da Flaiano, è ricordato per quelli fatti con Fellini. Non tutti sanno che Fellini e Flaiano si sono riconciliati prima della morte precoce del secondo nel 1972.
Fellini è sempre stato “tacciato” di essere un vampiro. Uno che succhiava idee, spunti, battute, racconti da chiunque, da amici e conoscenti, da collaboratori, attori, comparse e persino dalla sua posta. In egual misura aveva la fama di gran bugiardo, che lui stesso alimentava. Le due accuse sono strettamente legate al lavoro di creazione artistica. Chi crea è come l’ape, e tutti quello che gli passa davanti sono i fiori dai quali trae nutrimento. E’ normale. Si prende dalla propria vita e da quella altrui per poi sublimare il tutto in un nuovo racconto che non è per nulla falso, solo rielaborato secondo schemi interiori e insondabili dell’arte. In quanto alle celebri “bugie” del Faro, erano sempre innocue: o bugie bianche per non fare male o deludere troppo chi si aspettava qualcosa da lui o inebrianti ricami sulla “verità” (concetto spesso sfuggente), che la rendevano assai più divertente della mera narrazione dei fatti nudi e crudi. Tra la realtà piatta e la leggenda, sceglieva la fantasia. Del resto è spesso denigrato come caricaturista, come se fosse qualcosa d’inferiore. Ma il dono della caricatura è mettere in risalto aspetti di persone o situazioni che esprimono qualcosa di fondamentale e rivelatore, che un osservatore meno attento vede, ma non coglie.
Poteva essere capriccioso, tagliente (se annusava il tradimento, aiuto). Valeva la pena? Certo che valeva la pena
E arriviamo alla qualifica di “stronzo”, che la pur adorante Ceratto gli affibbia. E chissà perché si finiva sempre per perdonarlo? “Fellini riassumeva in sé sia il sogno sia il divertimento, sia la fantasia sia la malinconia e la poesia”. E’ piuttosto singolare che un uomo con queste doti sia accusato di avere dei difetti troppo umani. Non era certo Jack lo squartatore. E nemmeno sadico come Picasso. Se ha fatto soffrire la moglie, le ha anche regalato ruoli che nessun altro le ha offerto, e per i quali è una leggenda. Flaiano ha collaborato a tanti film di qualità, di Luchino Visconti, di Michelangelo Antonioni; ma è ricordato soprattutto per quelli dell’Incantatore. Ebbene sì: poteva essere capriccioso, tagliente (se annusava il tradimento, aiuto). Poteva avvolgerti di elogi, elevandoti su nuvole inebrianti di apprezzamenti per le tue insospettate virtù e qualità, e poi girarsi all’improvviso verso altri stimoli e dimenticare la tua esistenza. Valeva la pena? Certo che valeva la pena. E “La cartomante di Fellini” ne è la prova. Il genio di Fellini, l’averlo conosciuto, frequentato e l’essere stati suoi collaboratori, ecco un enorme regalo che non cessa mai di donare frutti. Solo nel 2020, l’anno del suo centenario, piovono trasmissioni, documentari e libri d’ogni sorta e livello, da aggiungersi agli innumerevoli già in esistenza. Il libro di Marina Ceratto non è certo uno dei più trascurabili.