Un po' più di contemplazione per non morire stritolati dalla panacea digitale
Un'umanità ipercinetica è votata all'autodistruzione
Contemplazione, contemplare. C’è qualcuno che usi termini come questi nel nostro mondo così spesso inutilmente se non distruttivamente attivistico? Chi osa pronunciare parole che indicano un comportamento mentale che fu ritenuto per più di due millenni necessario all’azione giusta, all’agire bene?
Il termine “teoria”, oggi usato per indicare la costruzione metodica di un pensiero che renda conto di fenomeni complessi, riprende il greco antico “theoria”, che in Platone e Aristotele equivaleva a conoscenza contemplativa, l’opposto dell’azione. Nel volume enciclopedico Garzanti dedicato alla filosofia si aggiunge che “in senso mistico-religioso, il termine indica quello stato in cui la mente si fissa su una realtà spirituale, immergendosi in essa fino all’oblio di ogni altra realtà”. Ma per essere più precisi si dovrebbe dire che non è neppure necessario che la contemplazione si eserciti su realtà spirituali, poiché è spirituale in se stessa: richiede una valorizzazione in senso lato religiosa di ogni aspetto della realtà. Il contemplare non modifica, non interpreta, non logicizza i suoi oggetti, ne “realizza la realtà” senza desiderio di possederla e dominarla.
Per non suscitare maliziosi sospetti circa la mia competenza in proposito, cito ancora qualche riga dall’enciclopedia Garzanti: “Fra gli autori influenzati dal neoplatonismo, Agostino e Dionigi Areopagita vedono nella contemplazione il grado più alto dell’attività spirituale umana (…) Tommaso d’Aquino affermò che la natura dell’atto contemplativo è intellettuale, mentre Bonaventura da Bagnoregio ne accentuò la componente volontaristica, descrivendolo come atto d’amore”. In sintesi come un vedere, conoscere e vivere “le cose come sono”.
Non mi sarei messo a dire e citare queste elementari nozioni se non avessi trovato uno spunto incoraggiante nella prima pagina di Agorà, supplemento culturale di Avvenire di venerdì 10 luglio, pagina occupata da due articoli fra loro complementari: uno di Francesco Tomatis, “Carta, penna… e famiglia per imparare a essere umani”, e l’altro di Simone Paliaga, “Se contemplare fa vivere il web ce lo impedisce”.
Ho letto con totale adesione questi articoli (quasi un manifesto) che aprono una vera, giusta e sentita prospettiva critica nei confronti della panacea digitale, che invece, nell’educazione, nella scuola e in tutti gli aspetti della nostra società e cultura, crea e creerà più danni e problemi di quanti promette di risolverne. Scrive Paliaga: “Tornare a contemplare, potrebbe suonare così il motto della battaglia culturale dei prossimi anni”. E poi, citando il libro di Raffaele Milani Albe di un nuovo sentire (il Mulino): “Difficile umanizzare l’informatica. Il web è la struttura dell’intrattenimento, dell’informazione, della comunicazione: raro trovare un’etica dell’intelligenza (…) L’intelligenza artificiale disattende la mediazione umana (…) La dimensione virtuale in realtà ha creato un pervertimento dello spirito della contemplazione, ha falsificato il contatto autentico con la natura”. Un’umanità iperattiva, ipercinetica che manchi di sufficiente contatto diretto, globalmente sensoriale e mentale con gli oggetti dell’esperienza reale, è un’umanità votata all’autodistruzione persino senza saperlo.
Non meno appassionata e precisa è l’apertura di Tomatis: “Ammesso e non concesso che ‘il digitale è reale’ come si va predicando per i mercati (digitali), sicuramente non è vero che ‘il reale è digitale’. Non è un destino ineluttabile il decadimento, come dalla sapienza alla filosofia e dalla filosofia alla scienza, dalla scienza all’informazione e dall’informazione all’informatizzazione, né dalla fede alla superstizione e dalla superstizione all’idolatria (digitale)”.
In sostanza, dice Tomatis, la devastazione della Terra è parallela alla devastazione tecnologica della vita umana, desertificata dall’eccesso di stimoli da schermo elettronico. L’attenzione non si concentra più abbastanza a lungo e senza interruzione su nessun oggetto reale e la stessa coordinazione fra mano e cervello, attivata e affinata per esempio dalla scrittura a mano su carta, viene meccanizzata e appiattita. Le conseguenze dei processi di tecnicizzazione dell’intera vita umana sono solo agli inizi, ma sono già chiari i suoi “corollari nefandi”: come l’omologazione culturale, l’astrattismo economico e l’ignoranza del trascendente. “Non vogliamo un’educazione digitale” conclude Tomatis. “Non abbiamo bisogno di una scuola senza libri e senza crocifissi, sostituiti da tablet e lavagne multimediali”.
Si tratta di una presa di coscienza netta e nitida. Lì dove la cultura laica “più avanzata” non riesce ancora ad arrivare, arriva oggi in piena chiarezza umanistica la cultura di “ispirazione cattolica”.