Per un pugno di mattoni
La nuova mostra di Camillo Langone è tutto un perdersi tra le varie edificazioni di carne, marmi e flora
Come rinunciare a una spedizione a Ferrara. Un caldo pomeriggio di lavoro, due relazioni, una raffica di videochiamate e niente impegni per la sera e una gran voglia di una bella dormita, finché mi chiama Camillo Langone per invitarmi a cena con Vittorio Sgarbi, a tre ore di viaggio da qui. “Almeno gli parli di quel muro a cui tieni tanto”. Più che un muro è un’opera d’arte pensata da Jonathan Monk e donata al MART di Rovereto in ricordo di mio padre. Un lato è fatto in mattoni facciavista della vecchia Fornace Beldì, basta uno sguardo a riconoscerli, sono perfetti e di un rosso inconfondibile, per questo il nostro slogan negli anni Sessanta era “il Beldì si vede dal mattone”. L’altro lato è fatto in lecablocchi, leggeri e isolanti grazie all’argilla espansa dalla nostra fabbrica, sono certificati e di un bel grigio, se non li conoscete basta cercarli sul nostro sito. Messi insieme, in una stanza del museo, sono il passato e il presente della nostra famiglia e un semplice dispositivo per esporre, almeno finché il muro ci sarà, la collezione di mio padre e la mia, a discrezione del direttore o del presidente del MART, al momento è Vittorio Sgarbi, che potrà attaccarci proprio quel che vuole, purché si diverta a stare al gioco e scelga i quadri dalla nostra casa.
La quadreria di casa è piuttosto fornita, mio padre amava la pittura, i gesti, le sigarette, il profumo degli studi d’artista fin dai tempi di Franco Francese, eccellente pittore padano amatissimo da Giovanni Testori e oggi molto dimenticato. Francese era un amico di famiglia, lavorava per lunghi cicli, centinaia di disegni per arrivare a una grande tela, a un certo punto aveva cercato di dipingere la sensazione dell’acqua che scorre tra le dita, era quella del Ticino, una frescura che conosco bene perché da bambino ci facevo il bagno, un giorno ci avevo perso un cappellino rosso con scritto Gilles Villeneuve e la maestra mi aveva consolato, il fiume di certo lo aveva adottato e “deve essere arrivato fino a Ferrara”. L’idea mi piaceva da morire e continuavo a pensare a quel posto sul delta del Po, per arrivarci sarebbe bastato lasciarsi trascinare dal fiume, sono uno di quelli che passerebbero il tempo a spedire messaggi in bottiglia, in particolare i miei limericchi, per questo amo l’arte concettuale, quella che per capirla serve una laurea in fisica teorica e infatti durante il viaggio ripenso alla “Esposizione in tempo reale” di Franco Vaccari del 1978, chiamato a Palazzo dei Diamanti aveva deciso di fare il percorso di Ludovico Ariosto da Carpi a Ferrara, incollando cartoline e polaroid. Sono lavori che mi strappano il cuore, soprattutto per l’idea di viaggiare coi tempi giusti e osservare i luoghi e la gente e lasciarsi guidare dal caso, quello che al mio arrivo in città mi porta proprio in Piazza Ariostea dove il poeta controlla ogni cosa dalla cima della sua altissima colonna bianca. Sarebbe la scena ideale per Federica Fracassi che abbiamo invitato a ottobre a Novara a leggere in pubblico l’Orlando Furioso nella serata di apertura di un nuovo festival multidisciplinare, una di quelle parole che Camillo detesta, lui ama solo chi sceglie una disciplina e ne fa una ragione di vita, tipo la pittura e soltanto la pittura, colori e pennelli tutto il tempo, magari tra una messa e una preghiera. Il massimo per lui è Giovanni Gasparro, pittore e incisore pugliese che vive da frate di clausura e pensa solo a moltiplicare mani e braccia ai suoi ritratti. Camillo vorrebbe convertirmi alla pittura e ci crede e lo capisco, ha già fatto di me un tabarrista e lambruschista e non c’è due senza tre ma sull’arte la vedo dura, basti dire che vivo da sei mesi con una grande lumaca di cartone di Spartacus Chetwynd, artista inglese finalista del Turner Prize che fa solo lumache e pipistrelli, in casa siamo noi due e devo dire che durante il lockdown siamo stati bene, il lumacone si spostava in soggiorno con le sue ruotine e non mi ha mai creato alcun disturbo.
Siamo usciti dall’orrenda pandemia senza un litigio e anche la fabbrica dei lecablocchi in argilla espansa è ripartita piuttosto bene, sarà che in Italia, a parte ovviamente in Parlamento, c’è una grandissima voglia di cantieri. Spero che continui, così potrò comprare altri quadri da appendere al muro del MART, sempre che Vittorio Sgarbi non decida di tirarlo giù. Più che convincerlo stasera a cena, forse dovrei accendere un cero alla Madonna, magari in una chiesa speciale, per esempio la Gran Madre che appare in notturna nel quadro che apre la mostra curata da Langone. L’immagine mi piace assai, conosco Daniele Galliano fin dalle sue prime personali, qui somiglia non poco a Peter Doig ma quel che mi paralizza è quella vista sul Po nel centro di Torino, un tuffo nel passato, la vedevo ogni notte quando lavoravo alla Fiat, il mio capo indiano con tanto di laurea al MIT era un vero martello e non mi mollava mai e la sera insisteva per portarmi in un posto da quel lato del fiume dove facevano un chicken tikka così piccante che mi sarei bevuto tutta l’acqua del Monviso. Non esiste quadro migliore l’inizio di un viaggio tra i “Pittori fantastici nella Valle del Po”. Il titolo di certo è evocativo, un po’ di poesia fa sempre bene e nei white cube è spesso assente, infatti mi attira a fondo sala il lungo fiume d’oro di Massimiliano Galliani, sembra un fulmine nella notte e con tutte quelle tenebre intorno fa pensare a quelle pagine di Joseph Conrad. Per il resto, attorno è tutto un perdersi tra le varie edificazioni di carne o di marmi o di flora, come il piccolo angolo naturale dipinto da Gabriele Grones, rigoglioso di ciottoli e di rugiada, iperrealista e dunque pieno di vita e di morte. Starei a guardare per ore le piccole foglie di menta o di ortica, ma arriva Sgarbi ed è un tuffo in un torrente in piena, prende alcuni per mano e ci porta in processione da un quadro all’altro, subito davanti all’olio di Nicola Samorì, su una lastra d’onice appena levigata ha ripreso il San Giovanni Battista di Ercole de’ Roberti che ho visto tante volte a Berlino, è così inquietante e scarnificato da non crederci, va bene che ha appena attraversato il deserto ma è come se prima di arrivare alla Gemäldegalerie fosse stato con noi al Tresor per una lunga notte d’alcol e musica elettronica. Tutto l’opposto dei paesaggi silenziosi del delta dove Mario Soldati cercava fornelli accesi e rane fritte e pesci gatto in villaggi come quello dipinto da Nicola Nannini, la sua officina ferrarese è coperta dall’uggia autunnale e sembra sull’orlo di esser travolta da un’ondata di astrazione che si fa strada oltre gli argini. Sono gli stessi paesaggi che dipinge, con mano assai diversa, Adelchi Riccardo Mantovani, pittore originario di Ro Ferrarese come Vittorio Sgarbi, migrato in Germania in cerca di fortuna negli anni Settanta e operaio alla Siemens per vent’anni, tra i reparti sognava di dipingere questi quadri che sanno di nuova oggettività ma nei dettagli c’è sempre qualcosa d’irregolare, forse è una goccia del sangue di Cosmè Tura che è passata di ferrarese in ferrarese ed è arrivata fino a lui.
Alcuni degli artisti il fiume non l’hanno proprio considerato, d’altra parte la pianura è fatta anche di campi e di città, di svincoli e paesaggi industriali come quelli di Andrea Chiesi che mi mettono una grande tristezza, non c’è nulla di affascinante in una fabbrica abbandonata se non l’ossessione di darle nuova vita. Meglio allora i colori scomposti di Marco Cingolani che ha dipinto un’aia con strane figure che si muovono tra scie di pettegolezzi e segreti, è un bel quadro anche se faccio fatica a capirne i dettagli. Ben più chiare sono le Mappe di Giovanni Frangi, uno sguardo a volo d’uccello sulla valle del Po, nella parte mediana, dove il fiume scorre più placido, “dopo l’amplesso con il Ticino, padre Po rincoglionisce letteralmente e assume l’aspetto d’un inquieto serpentone dalle larghe inutili spire”, lo scriveva Gianni Brera ed è proprio così, si vedono solchi e risaie e grandi buchi perché la piana è tutto un sedimento di sabbia e di ghiaia, una vera fortuna per fare calcestruzzi pesanti o leggeri e costruire case e scuole e ponti e musei e produrre quel cemento che serve a distinguere l’uomo dalle scimmie. Ne parliamo nella strana comitiva che segue Sgarbi e Langone, passiamo dal quadrivio degli Angeli e davanti alla Cattedrale di San Giorgio e oltre i bastioni fino al canale di Darsena, lungo la sponda hanno fatto un locale d’altri tempi, con tante lampadine appese come nel mio film preferito di Ermanno Olmi. Sarebbe da mettersi a ballare il liscio ma non riesco a resistere e corro subito alla balaustra e guardo in acqua in cerca del mio cappellino rosso. Purtroppo non c’è nulla, la mia maestra era stata troppo ottimista e allora mi consolo ordinando qualcosa al tavolino, l’atmosfera è popolare ma il prosecco è industriale, così come le patatine fritte e la band che fa solo musica latina. Vorrei sedermi vicino a Sgarbi per parlargli finalmente del muro ma finisco a fianco di un ragazzo che conosce tutti e allora provo a convincerlo che dovremmo trasferirci in massa al Torrione di San Giovanni dove fanno buona musica, di quel jazz improvvisato che è davvero popolare perché racconta la vita di tutti i giorni molto meglio di qualunque altra melodia. Scopro che il ragazzo è il Sindaco in persona, è un tipo davvero gioviale, mi versa un bicchiere e annuisce e mi promette che la prossima volta ci andremo insieme.
A dirla tutta avrei una gran voglia di andarmene al Luna Park, a giocare agli autoscontri o fare un giro sulle montagne russe, forse perché continuo a ripensare a quel quadro di Enrico Robusti che ha un’ idea tutta sua della prospettiva, ha dipinto così tanti pesci rossi nel gioco della fontana che mi sento ancora ipnotizzato, saranno i suoi punti di vista o forse è il Sindaco che continua a versarmi da bere ma non pensavo che un realista potesse diventare optical fino a quel punto. Quando la fiumana sia avvia verso il ristorante mi gira la testa ma arrivo anch’io senza colpo ferire a I Tri Scalin, è di quelle trattorie che sono lì da sempre, infatti ci troviamo tre vecchi che giocano a briscola con le romagnole, quelle col Castello Estense sul dorso, ricordo a Sgarbi che il progettista è Bartolino da Novara, sommo architetto novarese ben prima di Antonelli e Gregotti, pur sempre una questione di risaie e di mattoni, chi è stato a Castellazzo Novarese sa cosa voglio dire. Oltre i tavoli da gioco, il padrone di casa ci dispone come a un’ultima cena che inizia con friggione, cotechino e salama col melone, tutte cose che non richiedono spiegazioni, come i quadri degli artisti amati da Langone, è un trionfo di piatti ferraresi o dei dintorni, crema fritta e ravioli con l’anguilla e tagliatelle al ragù di faraona e litri di lambrusco che danno l’occasione di tornare sui mattoni Beldì, lisci e sabbiati, pettinati e bugnati, tabacco, vinaccia o giallo paglierino, c’è tutti un mondo da scoprire e dopo qualche sorso Vittorio Sgarbi mi dice infine che sì, “quel tuo muro ora l’ho capito” e l’idea sembra piacergli e “presto verrò a Novara a scegliere tra i quadri” e allora sarà meglio preparare mia madre al terremoto, finirà per presentarsi alle ore più impensate ma di certo gli daremo un’ottima accoglienza perché possa scegliere qualcosa da appendere al MART, purché sia fatto in punta di pennello, per prolungare la vita al nostro piccolo grande muro e dunque a quel pugno di mattoni che vorrebbe continuare a raccontare i diversi sguardi sull’arte nella storia della nostra famiglia.