L’altra mattina, alla presentazione del programma autunnale del Teatro alla Scala approntato fra mille ripensamenti e dopo undici stesure, in pratica il leggendario copione di “Up Close & Personal” di Joan Didion e John Dunne che meritò un libro di aneddoti tutto per sé (“Il mostro”), il sovrintendente Dominique Meyer ha citato il direttore generale Maria Di Freda e il suo lavoro fondamentale nella gestione di questi mesi. Ha accennato alle centinaia di contratti con musicisti, registi e cantanti rinegoziati in poche settimane, agli accordi con i sindacati sulla cassa integrazione, alle norme di sicurezza studiate e approntate perché i milanesi potessero tornare nel “loro” teatro anche a luglio, per quei quattro affettuosi concerti che, questo lo diciamo noi, visti da un palco di proscenio davano una vertigine di surrealtà, perché una platea occupata in larga maggioranza da larghi fogli bianchi con la scritta “non sedersi” in un luogo concepito per l’assembramento dei corpi e degli spiriti fa una certa impressione. Ha detto insomma molte cose garbate, Meyer, senza dire però quella fondamentale, e cioè che la signora ha tenuto in piedi un teatro da un migliaio di dipendenti nei mesi più difficili della sua storia dal Dopoguerra a oggi in assenza di sovrintendente o, per meglio dire, in sostituzione di. Per una di quelle combinazioni sfortunate in cui l’ambizione incontra il puntiglio e la politica ci mette del suo, il passaggio di consegne fra il sovrintendente Alexander Pereira dalle mille abilità dirette e Meyer, uomo di struttura e di approcci soft scuola-Mitterrand, non è avvenuto nelle forme consuete, anzi non è avvenuto affatto, e la Scala si è trovata sostanzialmente senza una guida dal 15 dicembre del 2019 alla fine di marzo 2020, in pieno lockdown. A dire il vero, Meyer aveva fatto diverse puntatine a Milano, fra cui l’ormai famosa uscita nel foyer in un sabato pomeriggio di fine febbraio per invitare gli spettatori a tornare a casa, perché la Scala entrava in quarantena da quel minuto preciso e a poco a poco sarebbe saltato tutto, dalle repliche del “Turco in Italia” con la regia di Roberto Andò al “Pélleas et Mélisande” di Daniele Abbado e le scenografie ispirate a Odilon Redon che per adesso restano appese, come un’alba cupa o uno sbaffo di sangue su fondo scuro, ai Laboratori Ansaldo. A causa della pandemia, però, invece di assumere appieno le proprie funzioni a marzo come previsto, di fatto il nuovo sovrintendente si è insediato a giugno, alternando riunioni via Zoom alla gestione quotidiana della Staatsoper di Vienna che ha guidato negli ultimi anni. In questo periodo confuso e come accadde con Anita Colombo, ex segretaria di Arturo Toscanini, che succedette ad Angelo Scandiani fra il 1929 e il 1931, cioè prima che il fascismo intervenisse a gamba tesa sul teatro, Maria Di Freda ha letteralmente mandato avanti la baracca, fumando giusto qualche sigarettina in più rispetto al solito e rendendo evidente a tutti che “mandarla a riposo adesso non è proprio possibile”, come confida uno dei vertici dell’istituzione ben conscio degli anni di servizio della signora, per i quali, non a caso, i quotidiani avevano ipotizzato un prossimo pensionamento già lo scorso anno.
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