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L'anno zero dei libri d'America

Francesca Pellas

Da Black lives matter all’arrivo di una nuova generazione di editor afroamericani ai vertici dell’editoria. Cosa cambierà? Intervista con Lisa Lucas, nuovo capo di Pantheon e Schocken

L’editoria americana è un castello dalle mille stanze in cui vive un potere antico, che dalle sponde del fiume Hudson decide quel che leggeranno l’America e il mondo. Un potere fatto di volti che in alcuni casi sono lì da sempre o da molto: volti e teste geniali che spesso però si somigliano nel loro venire dal “privilegio”, e che di spazio al nuovo ne hanno sempre lasciato poco. Eppure, complice un anno folle sotto tanti punti di vista, sembra che qualcosa stia cambiando. Prima di tutto, nei mesi scorsi sono morti alcuni dirigenti d’altissimo rango: gente che ha fatto la storia, come Susan Kamil a Random House o Sonny Metha, editor in chief dal fiuto leggendario della Alfred A. Knopf (fa parte del conglomerato Penguin Random House, il gruppo editoriale più grande del pianeta, nato dalla fusione dell’inglese Penguin e dell’americana Random House, e posseduto dalla multinazionale tedesca Bertelsmann). A partire da questi vuoti importanti e nel tumulto seguito alle proteste per la morte di George Floyd – che hanno evidenziato le profonde ineguaglianze di cui si sono nutriti tanti settori, compresa l’editoria libraria – è come se nel castello all’improvviso si fosse sbloccata una porta: una cosa non scontata. La grande conferma è giunta nelle scorse settimane, quando sono state annunciate due nomine cruciali, per molteplici motivi. La prima è quella di Dana Canedy, ex giornalista del New York Times, poi responsabile dei premi Pulitzer, diventata vice presidente ed editore della Simon & Schuster, terza donna e prima afroamericana a ricoprire la carica. Poco dopo è stata la volta di Lisa Lucas, nuovo editore di Pantheon e Schocken, due marchi del gruppo Knopf. Lucas ha quarant’anni e arriva da una bella carriera nella cultura, la cui ultima avventura è stata la direzione esecutiva della National Book Foundation (l’ente che ogni anno assegna i National Book Award, ovvero i premi letterari più importanti d’America insieme ai Pulitzer).

  

“Il discorso si è dipanato man mano”, racconta via Skype dalla casa di Los Angeles in cui, da newyorkese, si è ritrovata quasi per caso a trascorrere i mesi di lockdown. Il discorso è quello con Reagan Arthur, succeduta a Sonny Metha nel ruolo di capo della Knopf. “Era un momento decisamente intenso: la pandemia, le proteste seguite alla morte di George Floyd. E io mi stavo chiedendo: come posso essere d’aiuto? Come posso agire, con gli strumenti che ho a disposizione, e fare qualcosa per la cultura che lasci un segno e abbia un significato? Da lì anche la conversazione con Reagan si è fatta più seria, ed è diventato un pensiero fisso”. Lucas non voleva lasciare il suo lavoro alla National Book Foundation, ma questa era “un’opportunità irrinunciabile”, e lei si è ritrovata a dover fare una scelta. “Camminavo avanti e indietro per il cortile di casa e parlavo al telefono con mio fratello, con la mia migliore amica, cercando di capire il da farsi. E paradossalmente ad aiutarmi a decidere è stato il Covid-19: l’isolamento, il ritrovarmi in una città che non era la mia, a migliaia di chilometri da New York… Ho pensato che a livello politico, personale e professionale il mondo che avrei trovato alla fine di questo periodo assurdo sarebbe stato diverso. E allora ho voluto sognare in grande e mi sono detta: avrai il potere e lo spazio per dare una mano a fare qualcosa di importante, per aiutare anche gli altri a sognare in grande. Non puoi non farlo”.

  

E’ stata una decisione inaspettata anche per lei, che si era da poco spostata a Los Angeles con l’intenzione di rimanerci almeno per un periodo, valutando se dare una svolta a tutto, città e carriera. Chi ha visto Marriage Story di Noah Baumbach capirà senza fatica quanto il salto da una costa all’altra possa significare in termini di volontà di cambiamento: è come passare dalla notte al giorno o viceversa; in ogni caso, per un americano, si tratta di una scelta tra due estremi. E proprio allora, cioè proprio quando pensava che avrebbe potuto lasciare l’Est per l’Ovest e i libri per chissà, forse l’industria del cinema, è successo che la vita di prima l’ha richiamata: “Lì ho capito che potevo fare tante altre cose, ma non volevo. Volevo fare i libri. Dare libri belli al mondo, essere un vettore, un ponte, un megafono. La mia vita sono i libri, e sarà così per sempre”. Una vita, quella nella e dell’editoria, in cui è in corso una profonda evoluzione: un’altra cosa che la capa di Knopf, Reagan Arthur, ha sottolineato annunciando la nomina di Lisa Lucas è infatti che tutto sta cambiando, e tra dieci anni nulla sarà com’è ora. Cosa dobbiamo aspettarci? “Da un lato spero ovviamente che di qui a un decennio l’editoria sarà un settore più equo, che guarderà oltre le esigenze di mercato, ponendosi obiettivi più alti”, dice Lucas. “Al contempo mi chiedo: quanti miliardi di piccole e grandi decisioni intermedie dovremo prendere, tutti noi come collettivo, ogni giorno, settimana, mese e anno, affinché sia così? Ad aiutarci a capirlo magari saranno persone nuove, che al momento non fanno ancora questo mestiere”. Anche Lucas, per quanto lavori nei libri da anni, viene dal mondo no-profit e quindi in un certo senso da fuori: non ha fatto carriera dall’interno, seguendo cioè il cursus honorum classico per cui si entra in una casa editrice come assistenti poco dopo l’università (“fresh out of college”, dicono in America) e poi si salgono i vari gradini fino ad approdare a posizioni importanti. La sua storia professionale è molto diversa, e lo stesso vale per Dana Canedy, a cui è stata affidata la guida di Simon & Schuster. Il fatto che entrambe siano afroamericane, donne, e vengano da un percorso esterno, quindi non classicamente editoriale, è un segnale forte, che la dice lunga sul desiderio di rinnovamento dei grandi gruppi. La forza di Lucas e Canedy è proprio questa: il potere del nuovo. La speranza è che il loro arrivo dia la spinta necessaria a creare un circolo virtuoso finalizzato a fare “better business”, un business migliore, pubblicando libri migliori e creando spazio per voci diverse. “La sfida sarà proprio questa. Siamo in tanti ad amare i libri e a lavorare nei libri in vari modi, e ognuno di noi cerca di fare del suo meglio, ma la verità è che gli Stati Uniti sono un paese immenso, ed enorme è il numero di titoli che escono ogni anno. Non è un compito facile, ma ci sono tante persone intelligenti che vogliono dare il loro contributo al cambiamento. Sappiamo tutti che la strada giusta è quella di un’editoria più inclusiva: una maggiore equità non potrà che portare vantaggi anche dal punto di vista delle vendite, o almeno è quello che mi auguro”. Tutto questo, per Lucas, si può realizzare unicamente mettendosi in testa che un capo non è mai solo. La visione non appartiene a un singolo, ma è un’architettura tenuta insieme e portata avanti da una squadra: “Il mio incarico inizierà con l’anno nuovo. Mi accingo ad arrivare in un posto che ha fatto la storia dell’editoria americana, e non si entra in un luogo del genere con l’accetta in mano, esclamando: bene, da oggi cambieranno le cose. Lì dentro c’è un team eccellente, che lavora insieme da anni. Quelle persone saranno la mia forza. Da loro ho tanto da imparare, e questa cosa mi elettrizza. Mi elettrizza l’idea di partecipare a ogni fase della realizzazione di un libro: da come se ne acquisiscono i diritti, a come se ne discute, all’editing, alla stampa, al marketing, alla vendita. Sarà una grande opportunità, una nuova istruzione. Poter apprendere da geni straordinari come Dan Frank (editor in chief a Pantheon, ndr), Erroll McDonald (vice presidente e direttore esecutivo di Knopf e Pantheon, ndr), e Reagan Arthur… Persone che stimo da sempre, a cui dobbiamo libri incredibili… Ecco, l’idea non solo di essere come loro, ma di poter imparare da loro: il mio cervello ha iniziato a correre più veloce solo al pensiero”. Tutto molto bello, però non va dimenticato che Lisa Lucas porta con sé un approccio unico, con o senza accetta, ed è stata chiamata proprio per far valere questa gittata che la sua capacità d’immaginare possiede. Così è stato anche alla National Book Foundation, dove la sua missione dichiarata era quella di avvicinare le persone ai libri e il suo desiderio quello di trasformare la cerimonia annuale di premiazione, i National Book Award, “nell’equivalente librario della notte degli Oscar”. La sua è una visione agguerrita e fortemente influenzata dall’essersi formata nel settore no-profit, in cui lavora da diciannove anni; per Lucas, infatti, questa nomina e questo nuovo ruolo sono un’ulteriore opportunità di mettersi al servizio della comunità: “Non posso lavorare se non così: sapendo, nel profondo, che sono al servizio delle persone, e di questo bene superiore che per me sono i libri. Certo, in una casa editrice bisogna pensare anche a vendere, ma anche quello diventa parte della missione, se si pensa che più un buon libro vende, e più certe idee giuste e buone si diffonderanno. A mio avviso lo scopo di un editore dev’essere pubblicare opere che abbiano queste caratteristiche e fare in modo di diffonderle, affinché la comunità locale e globale possa trarne giovamento. Bisogna pubblicare libri pensando al mondo che vorremmo”.

  

Negli Stati Uniti stanno succedendo cose enormi, che dalla morte di George Floyd in avanti hanno messo in evidenza quanto anche l’editoria libraria, come tanti settori, debba fare spazio a qualcosa che è sempre stato lì, ma a lato, e si riassume in una frase semplice: buona parte dell’America. Secondo un’indagine svolta lo scorso gennaio dalla casa editrice indipendente di libri per bambini Lee & Low, a essere nero è solo il 5 per cento dei lavoratori editoriali americani (si parla di tutto: case editrici, agenzie letterarie, agenzie di scouting). Un dato che fa venire i brividi. Oltre che ai lettori, faccio notare a Lucas, bisognerebbe pensare anche a chi concretamente ha accesso al lavoro editoriale: a New York specialmente, che è la culla dell’editoria, è quasi impossibile iniziare a lavorare nei libri se non si ha un aiuto, una famiglia ricca alle spalle. Un giovane che comincia come assistente in una casa editrice, ovvero nel modo in cui si costruiscono le carriere nelle grandi case editrici americane, deve sapere che per diversi anni avrà uno stipendio talmente misero che senza un aiuto di altro tipo sarà spacciato. Questo ha sempre limitato moltissimo il “parco risorse” a cui si poteva attingere, ed è il motivo per cui quasi tutti i lavoratori dell’editoria in America sono bianchi e di un certo ceto sociale. Il mondo nuovo è un’idea bellissima, ma va costruito anche cambiando le cose alla fonte: creando più inclusione a partire dal primo gradino, aprendo uno spazio affinché l’editoria possa essere rinnovata da dentro. La nomina di Lisa Lucas e quella di Dana Canedy a Simon & Schuster sono importantissime, ma loro ce l’avevano già fatta: avevano una carriera a dimostrarlo. Le cose, le chiedo, devono cambiare anche per i ragazzi agli inizi, costruendo per loro possibilità diverse. “Sicuramente. Creare delle opportunità è una delle mie speranze più grandi. Bisogna iniziare a chiedersi: chi scegliamo di sostenere? Di chi sceglieremo di farci mentori? A chi potremo dare il modo di fare questo mestiere e lo spazio per crescere e fare carriera, creando un clima che favorisca un reale cambiamento dall’interno?”.

  

Canedy e Lucas andranno a unirsi a un piccolissimo ma assai influente gruppo di editor e dirigenti afroamericani tra cui spiccano personaggi come il già citato Erroll McDonald, vice presidente e direttore esecutivo di Knopf e Pantheon, e Chris Jackson, a capo della casa editrice One World (sempre gruppo RH), inserito da Time “tra i 12 leader che stanno formando la prossima generazione di artisti”: uno a cui, da editor, si devono autori come Ta-Nehisi Coates, e che insieme alla ex moglie Sarah ha fondato una delle librerie indipendenti più importanti di New York, la McNally Jackson.

  

La necessità di un’inclusione vera e definitiva rimane in primo piano, ma per Lucas è solo uno dei problemi: in una bella intervista del 2016 sul New York Times spiegava che a interessarla è un’idea di inclusione generale, legata anche a tutto il resto, ovvero alla povertà, all’isolamento culturale di certe zone del paese. Se il compito della letteratura è unire, diceva, allora nella costruzione di una nazione di lettori non bisognerebbe lasciare indietro nessuno. “Ovviamente la questione razziale è imprescindibile”, mi risponde quando le chiedo che cosa ne pensa oggi, a quattro anni di distanza. “Ma non c’è un problema più urgente di altri: l’ambiente, i cambiamenti climatici, le molte ineguaglianze, sono altrettanto importanti. La gente non fa che chiedermi qual è la mia visione, ma la verità è che non lo so, perché l’unica visione in cui credo è l’ampiezza di vedute”. Parlare della lettera pubblicata dalla rivista Harper’s, firmata da molti celebri intellettuali in rivolta contro la cosiddetta cancel culture, non le interessa: “Non è una cosa a cui penso più di tanto, o di cui ho parlato con le persone con cui mi sta a cuore parlare. Mi spiace, ma preferisco essere onesta”. Le interessa di più discutere del domani: un’altra cosa bella che ha detto al New York Times è che secondo lei per fare un buon lavoro è sì importante rispettare ciò che ci ha dato il passato, ma senza mai dimenticare di “amare di più il futuro”. Le chiedo come possiamo amarlo meglio, oltre che di più, e lei mi dice che la chiave è solo una: “Essere consapevoli che un futuro ci sarà. E che tutto è destinato a cambiare. Ci sarà sempre un’idea nuova, un nuovo libro, un nuovo modo di venderlo. E’ importante prepararsi, e accettare che nulla è per sempre, così da evitare che il futuro ci prenda a pugni in faccia due anni dopo essere arrivato”. E, in un momento storico in cui si inizia finalmente a gridare affinché altre voci vengano ascoltate, sembra che ad averlo capito sia anche l’editoria americana tutta, che per la prima volta si sta ponendo una questione ben più ampia del semplice proposito di pubblicare più libri di autori neri. A essere necessario non è tanto che i bianchi si “sveglino” e prendano coscienza delle ingiustizie sociali e razziali (questo significa il termine woke), perché anche quello, a ben guardare, è parte del gioco della supremazia, ovvero un dare voce e dare spazio. Quel che serve è, invece, che ad accedere a posizioni di potere (e, prima ancora, a entrare nel mestiere) sia chi non ha mai avuto bisogno di “svegliarsi” per il semplice motivo che non è mai stato addormentato. Pensando a un’editoria americana con più editor e dirigenti neri vengono vertigini meravigliose, nell’immaginare quello che potrebbero costruire e mettere in moto avendo accesso ai lettori. “Il modo migliore per voler bene al futuro è fargli spazio”, conclude Lucas. “Io sono pronta”.

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