I cristiani e le statue abbattute. Tra colpe del passato e presunzioni del presente
L’attenzione alle colpe delle generazioni passate spesso va insieme all’incapacità di prendere consapevolezza di quelle delle generazioni presenti
Mentre la protesta contro le statue degli eroi confederati – basata sull’argomento storico, legittimo, che sono un simbolo della supremazia dei bianchi – arriva a chiedere anche la rimozione di quelle di padri fondatori come Jefferson e Washington, abbiamo chiesto a Daniel K. Williams, prof. di Storia alla West Georgia University che si occupa del tema dell’intersezione tra religione e politica, come i cristiani dovrebbero porsi di fronte alla questione. “Penso che non debbano né difendere i peccati dei fondatori né abbattere le loro statue, ma riflettere sul significato di questi monumenti”.
Per più di un secolo dall’inizio della loro storia nazionale, spiega, gli americani non hanno voluto costruire monumenti dedicati alle personalità o coniare monete con la loro effigie, perché questo, secondo la teologia calvinista, “avrebbe portato a spostare lo sguardo dalla perfezione sovrana di Dio alla singola creatura peccatrice. Ma prima o poi, studiando quella persona, ci si sarebbe accorti di quello che già Gesù ha detto: nessuno è buono tranne Dio”. Williams osserva che l’attenzione alle colpe delle generazioni passate spesso va insieme all’incapacità di prendere consapevolezza di quelle delle generazioni presenti: “Dato che le preoccupazioni morali cambiano nel tempo, cambia anche la nostra percezione della gravità dei peccati particolari. I peccati che prevalgono nella nostra cultura e nel nostro momento storico, ai quali noi stessi partecipiamo, ci sembreranno relativamente meno gravi”. Così, “mentre giustamente condanniamo gli orrori commessi dalle precedenti generazioni, siamo tentati di dimenticare che il peccato è tanto presente nei nostri cuori quanto lo era in quelli dei proprietari di schiavi del Sette e dell’Ottocento. L’ingiustizia razziale non è il solo peccato della nazione americana e non avremo cancellato il male dalla nostra società quando ci saremo liberati di quei monumenti”. Si può ad esempio ricordare, continua Williams, come a metà del Novecento la società che era agitata dalla lotta per l’uguaglianza e i diritti civili era poi assai meno severa nel condannare l’adulterio, un peccato assai diffuso e anzi giustificato dai modelli di comportamento dominanti.
Esiste dunque qualcuno che possiamo commemorare senza rischi? “Se intendiamo qualcuno che non è toccato dai peccati inscritti nella sua cultura e nel suo tempo, la risposta è no”. Washington, come tutti i proprietari terrieri della Virginia, “fu padrone di schiavi e inseguiva quelli che cercavano di scappare. Ma dimostrò anche una esemplare capacità di sacrificare i propri interessi abbandonando il potere, e verso la fine della sua vita stabilì che tutti i suoi schiavi sarebbero stati liberati alla morte di sua moglie. Ora, fingere che il nostro paese non sia intimamente legato a lui – alle sue virtù come ai suoi peccati – sarebbe una ingenuità storica. E fingere che noi siamo stati più bravi di lui nel sottrarci ai peccati della nostra generazione sarebbe presuntuoso”. In conclusione, dal punto di vista cristiano “la buona notizia è che Dio si serve di grandi peccatori – assassini, adulteri, sciovinisti, razzisti e tante altre persone come noi – all’interno di un disegno universale di salvezza. Questo non vuol dire che a ogni peccatore dovrebbe essere fatto un monumento o che ogni singola statua debba essere tenuta dov’è. Ma vuol dire che i cristiani dovrebbero essere i primi a riconoscere il male commesso dai nostri antenati e i primi a riconoscere che probabilmente anche noi commettiamo altrettanto male, che Dio ha perdonato col sacrificio della Croce. E forse questa presa di coscienza è il primo passo per affrontare con grazia e saggezza le questioni controverse di ogni momento storico”.