Il rebus perfetto
Fare la Settimana Enigmistica sotto l’ombrellone è un culto, e gli indovinelli figurati (quelli italiani sono i migliori di tutti), sono l’apice di una cultura raffinata
A Capri, qualche decina d’anni fa, durante un convegno di enigmisti, uno dei partecipanti subì una scortesia, un imperdonabile sgarbo, da parte di uno degli organizzatori. Reagì minacciando di andare in camera a prendere la pistola per sparargli. Fortunatamente riuscirono a calmarlo e a impedirgli di dar seguito alla minaccia. Anche se nessuno sa se la pistola ci fosse davvero o se la minaccia fosse solo un effetto imprevisto dell’eccesso di passione, rimane comunque chiaro che ci sono persone che prendono l’enigmistica piuttosto seriamente. (Se vi interessa sapere dove sono ora i due contendenti: il minacciante è morto, il minacciato è ancora vivo). Una di queste persone, meno guerresco ma altrettanto appassionato, è Emanuele Miola, che insegna Linguistica generale all’Università di Bologna ed è un raffinato rebussista (nome d’arte Ele). “Gli enigmisti sono pronti a uccidere per la loro passione – ha detto al Foglio – Durante i convegni possono verificarsi anche casi di litigi. Il più impressionante fu quello di Capri verso la fine degli anni ’80. Good ol’ days!”.
Miola ha da poco pubblicato “Che cos’è un rebus?” (Carocci, 2020), un piccolo e agile libro che propone un interessante studio linguistico dei rebus e che lascia, a fine lettura, la sensazione che il rebus possa davvero meritarsi lo scettro del gioco enigmistico più bello e completo, dato che, a ben guardare, è l’unico che sollecita e soddisfa tutte le facoltà espressive dell’uomo. “Questo fascino – si legge nel libro – probabilmente risiede nell’intimo piacere di velare e svelare il linguaggio, di saggiare le proprie competenze culturali e (meta)linguistiche, di scoprire il significato celato che sta sotto i nostri occhi e di sciogliere, come detective, il mistero seguendo gli indizi seminati nell’illustrazione sotto forma di figure e lettere”. Ed è proprio quel desiderio di misurarsi con le parole che fa dell’enigmistica sì un gioco, con regole condivise e intrattenimento edificante, ma soprattutto un “àgon, perché ciò che spinge l’enigmista a mettersi a creare o a risolvere un gioco è, in fondo, la competizione e la sfida, tanto con sé stesso quanto con gli altri enigmisti”. Certo poi a volte la provocazione non è soltanto intellettuale, ma quelle sono eccezioni. D’altronde, non risulta che la Sfinge abbia mai avuto pietà per i solutori scarsi.
Naturalmente, quanto detto vale forse più per l’élite degli enigmisti che per i solutori stagionali, quelli cioè che non partecipano a convegni, non competono per il gioco più virtuoso o per la soluzione più veloce, ma che più semplicemente si intrattengono con l’enigmistica, soprattutto durante l’estate. Quelli insomma che comprano la Settimana Enigmistica per fare umilmente la parole crociate o, quando si sentono particolarmente in forma, i giochi della pagina della Sfinge. Aggiunge Miola che ci sono molte più persone di quanto si creda che comprano le riviste di enigmistica solo per leggere le barzellette. Andrebbe indagato se lo fanno perché davvero adorano quelle freddure o se acquistano il fascicolo con qualche ambizione ma poi si demoralizzano alla prima crittografia e si consolano con l’umorismo rinfrancante. Ad ogni modo, ci sono due tipi di enigmistica: quella da edicola, che propone anche i cruciverba, gioco esclusivamente popolare; e quella classica, pubblicata su riviste specializzate che si ricevono solo su abbonamento, come Penombra, La Sibilla, Leonardo, dove si trovano giochi crittografici, giochi in versi e rebus. Ed esiste anche una precisa gerarchia tra gli enigmisti, che, con l’aiuto di Miola, potremmo sintetizzare così, dal gradino più basso: c’è chi legge solo le barzellette; chi fa solo i cruciverba; “ci sono gli assidui solutori della Settimana Enigmistica a cui la Settimana non basta e hanno bisogno di altra droga, che trovano nelle riviste di enigmistica classica”; infine, tra questi ultimi, c’è il “cerchio magico” degli autori di giochi. Ma, come a poker la scala minima vince sulla scala massima, non è detto che un bravo autore di giochi sia anche un bravo solutore. Tutto si tiene. Ma sopratutto, tutto, inesorabilmente, ruota attorno alla Settimana Enigmistica, dove si è formato l’immaginario collettivo degli italiani relativo all’enigmistica, dove sono nati innumerevoli giochi e dove si sono fissati i canoni estetici del rebus moderno.
Foto Ap, via LaPresse
“Come ha detto una volta Andrea Moro, un famoso linguista, – continua Miola – se dovessimo inviare nello spazio due sole cose a testimoniare ciò che l’uomo può raggiungere con la sua intelligenza, faremmo bene a scegliere la lettera contenente la congettura di Goldbach e una copia de La Settimana Enigmistica”. Va però reso il merito anche a un altro protagonista italiano della storia del rebus: Mike Bongiorno. Non che l’abbia fatto apposta, ma conducendo 2.600 puntate di Bis!, negli anni ’80, un quiz di cultura generale la cui prova finale era un rebus, ha portato immensa popolarità al “gioco più affascinante dell’enigmistica italiana”, per usare una definizione di rebus di Stefano Bartezzaghi. Ecco, qui si tocca uno degli aspetti più interessanti del libro di Miola: l’enigmistica è un primato italiano? Ci sono rebus in altre lingue? Sono belli? La risposta è che, ovviamente, ci sono rebus, così come altri giochi enigmistici, in altre lingue e culture, tanto più che il rebus è antico quanto la scrittura. Ma che di belli come quelli italiani non ce ne sono. Per vari motivi, uno su tutti è la predisposizione linguistica dell’italiano. Intanto perché l’italiano è una lingua giovane, quindi la lingua orale e la lingua scritta sono abbastanza vicine da permettere alla maggioranza delle persone di cimentarsi con il rebus. Poi, si pronuncia come si scrive, quindi è facile giocare a mente con le parole, senza doverle vedere scritte. Infine, è alfabetica, perciò i giochi con le lettere e le parole sono in perfetto equilibrio tra una grande libertà creativa e un ordine facilmente ricostruibile. Se prendiamo come controesempio un rebus in ebraico moderno, lingua che usa come sistema di scrittura non un alfabeto, ma un consonantario (ovvero un sillabario che scrive per ogni sillaba solo le consonanti), vediamo che ogni frase è composta solo da consonanti e sta al lettore completarla con le vocali. Questo permette di certo una enorme libertà all’autore, ma il complesso meccanismo di soppressione e sostituzione può portare disorientamento nel solutore, perché le combinazioni possibili risultano troppe. Oltre all’ebraico, nel libro si trovano cenni ad altre tradizioni rebussistiche, russa, francese, inglese, giapponese, tutte utili, di contrasto, per far emergere le virtù di quella italiana. Ma allora, se il rebus italiano è il migliore, rimane da capire quale sia il più bel rebus di sempre.
Un canone di bellezza, registrato e condiviso, esiste e fa perno sul “triangolo brighiano”; da Briga, nome d’arte di Giancarlo Brighenti che, assieme all’illustratrice, nonché sua moglie, Maria Ghezzi (Brighella), ha di fatto creato il rebus moderno. Il triangolo pretende: 1. originalità e coerenza delle parti; 2. bellezza e contenuto della frase risolutiva; 3. qualità estetica dell’illustrazione. Si guadagnano punti anche quando si usa una parola per la prima volta. Poi c’è un ulteriore livello di sofisticazione, un virtuosismo apprezzabile solo dai più esperti, che concerne la frase risolutiva: “Per essere apprezzata – spiega Miola – la frase risolutiva deve essere di senso compiuto, spesso una frase fatta o idiomatica, o una massima. Ora, dato che le massime sono spesso di un certo tipo e quindi in qualche modo il solutore esperto può aspettarsele, quando la massima che fa da soluzione capovolge quell’aspettativa, il rebus diventa ancora più bello”. I meta-rimandi dell’élite sono infiniti.
Riprecipitando tra noi solutori stagionali, si sappia che nel libro ci sono anche suggerimenti semplici e di pronto utilizzo per risolvere i rebus estivi. A richiesta di aiuto, Miola ci prende per mano, e noi prendiamo appunti: “Direi che le basi del rebus (basi basi) sono: 1. per i rebus di denominazione, si devono nominare solo le cose che sono evidenziate dai gruppi di lettere e mettere ciascun gruppo di lettere o immediatamente prima o immediatamente dopo la cosa che evidenziano. 2. per i rebus dinamici, si deve descrivere cosa accade nella scena, tenendo conto che i gruppi di lettere accompagnano (o talvolta sostituiscono del tutto) i nomi di quelli che sono degli attanti della scena (ovvero accompagnano parole del tipo di avo, tino, vino, pesce, reo, ecc.); 3. le prime letture dei rebus sono composte usando tutte le varietà di lingua disponibili ai solutori, quindi si usano tratti propri dell’italiano antico accanto a quelli propri di registri più parlati”. Il terzo punto significa che quando cerchiamo la prima lettura, ci dobbiamo aspettare parole che non usiamo comunemente, questo perché chi crea i rebus cerca parole ovunque può per poter moltiplicare le possibili combinazioni. Per dire, in qualche caso (molto raro) è ancora possibile usare la terza persona singolare del verbo avere senza la h (à). O, per fare esempi meno estremi, nelle prime letture è più facile trovare eglianziché lui, o ciò anziché questo o quello. Mentre quasi sempre vengono omessi, come nei titoli di giornale, gli articoli e il verbo essere. Se poi questi suggerimenti non dovessero bastare, c’è l’arma finale (no, non è un pistola), lenta ma potentissima. Si chiama Eureka (www.eureka5.it) ed è un archivio digitale nel quale sono registrati tutti i giochi in versi, le crittografie e i rebus pubblicati dal 1869 a oggi sulle riviste di enigmistica classica e sulle riviste popolari. Ai creatori, serve principalmente per controllare di non proporre un doppione. Ai solutori molto motivati, può servire per abituarsi ai rebus, per assorbirne gli schemi e per sviluppare un qualche automatismo. Però bisogna disporre di molto tempo libero, perché solo di rebus, su Eureka, ce ne sono 207.476.
Le persone che si intrattengono con l’enigmistica sono sempre tante, soprattutto durante l’estate (LaPresse)
Qualunque sia lo spirito con cui affrontiamo gli enigmi è bene comunque mantenere salda la deludente consapevolezza che, per quanto ci impegneremo quest’estate, risolvere i rebus non ci fa diventare più intelligenti. “No – risponde Miola – gli italiani non sono più intelligenti a settembre solo perché hanno fatto tanta enigmistica in estate. Però è vero che fin dagli anni ’60 l’enigmistica rappresenta per la maggior parte delle persone l’unico modo per testare la propria conoscenza nozionistica e la propria capacità di ragionamento”. L’attività enigmistica ha insomma una riconosciuta funzione didattica e sociale, simile per certi aspetti a quella dell’umorismo; e infatti quasi sempre gli enigmisti sono anche appassionatissimi di umorismo.
Infine, il rebus pare che sia anche la vera chiave dell’inconscio: “è significativo sottolineare – si legge nel libro – come il padre della psicanalisi moderna, Sigmund Freud, ha suggerito che le porte privilegiate per accedere all’inconscio siano, da un lato, l’interpretazione dei sogni, che paragona allo scioglimento di un Bilderrätsel, ovvero di un rebus, di un indovinello figurato, e dall’altro il Witz, la battuta di spirito”. Abbiamo così raccolto tutti gli elementi per immaginare l’über-rebus, quello che ci porterà a conoscere la quintessenza di tutti i rebus e quindi la verità ultima sotto il velo della coscienza. E’ fatto come uno degli ultimi rebus di Miola: presenta una parola mai usata prima nella storia dei rebus, sorprende con l’originale combinazione delle parti e ha una frase risolutiva che non è solo una massima, non è solo una raffinata parodia di una massima, ma è addirittura la risposta più pura e più semplice alla domanda: Che cos’è un rebus? E’ un ENI–posta di Google–LU–fetta di torta farcita.