Un festival e un viaggio, galleggiando sull'acqua
Dallo Sponz Fest di Capossela alle Anime galleggianti, il libro di Zamboni e Brondi. Così musica e racconto possono riempire il vuoto delle aree interne
“Una crociera nel posto meno turistico del mondo, per mettere a fuoco quanto poco conosciamo le terre che viviamo”. Massimo Zamboni (chitarrista fin dai tempi dei CCCP e dei CSI) dice al Foglio che quello che ha fatto quattro anni fa con un altro musicista di culto, Vasco Brondi (Le Luci della Centrale Elettrica), è “uno di quei viaggi che ti rimangono. Sono stati solo pochi giorni, ma di grande intensità”. Da quell'andare ha ricavato un libro, Anime galleggianti (La Nave di Teseo), scritto a quattro mani con Brondi e con le fotografie di Piergiorgio Casotti. È passato qualche anno ma le immagini sono tutte lì, ravvivate dai reading e dagli spettacoli che ne sono sgorgati, come emissari di un fiume. Un nuovo corso, le Anime galleggianti, lo troveranno ancora il 26 agosto, nell'ottava edizione dello Sponz Fest, il festival ideato e diretto da Vinicio Capossela. Il tema di quest'anno sarà l’acqua. Dal 25 al 30 agosto in quella terra di mezzo che è l’Irpinia, stretta fra il fiume Sele e l’Ofanto, si scenderà verso il mare, sconfinando in otto luoghi segnati dall’acqua (il programma è qui). Non solo Calitri, cuore storico dello Sponz: ci saranno appuntamenti in provincia di Avellino a Caposele e a Torella dei Lombardi, paese d'origine di Vincenzo Leone, padre di Sergio e pioniere del cinema muto italiano. E poi Paestum, Eboli, Serre, Valva e Contursi Terme in provincia di Salerno. Niente grandi concerti in forma festivalizzata, ma una specie di carovana, di pellegrinaggio, di cammino coi piedi sulle acque.
“Parlare di acqua è parlare di mito e letteratura. È parlare di inconscio collettivo”, racconta Capossela presentando il festival. “Molte sono le fonti, le acque che disegnano il territorio, le fontane, le pile abbeveratoio di acqua pubblica, luoghi di incontro che restano a segnare le vie abbandonate del territorio come una radiografia di un mondo scomparso. Sponz viene dall’espressione paesana sponzare, che significa ammollamento e perdita della rigidità. Si sponza nell’acqua, come il baccalà. E nell’acqua si spurga, ci si purifica e monda. Si nasce a nuova vita. Pertanto questo è un invito a sponzà quà! Qua, nei luoghi del vuoto delle aree interne. Tra le nuvole in viaggio, dove l’ultra locale diventa universale. E il particolare comprende ognuno”.
Riscoprire e raccontare le acque, insomma. Come hanno fatto Brondi e Zamboni, partiti dalla rimessa dei Reggiani a Governolo, bassa mantovana, che avevano messo a disposizione una zattera in alluminio. La rotta era segnata, in bilico tra Lombardia, Veneto ed Emilia, disegnata dal lavoro della natura e dell'uomo, imbrigliata tra argini e chiuse. Un andare lento, attraverso il canale Tartaro – che “è bellissimo ma che pochi conoscono e ancora meno sanno che si può navigare”, dice Zamboni –. Un'autostrada liquida e pigra che si snoda per centotrentacinque chilometri. Un percorso “che sulla carta dovrebbe avere un uso commerciale, ma che invece è sottoutilizzato: noi abbiamo incontrato pochissime chiatte, anche se è tutto molto bene organizzato”, ricorda.
Il Tartaro-Canalbianco-Po di Levante sbocca nell'Adriatico. Qualcuno lo chiama “Mantova-mare”, strappando un ghigno a chi conosce quelle zone di terra grassa e giunchi, freddo “da lazaròn” in inverno e zanzare-elicottero, a rendere ancora più insopportabile la calura estiva. Poche finestre di bel tempo per respirare, appena prima e appena dopo l'estate. Quando i due musicisti partono, gli alberi sono già infuocati dall'autunno. Attorno c'è una regione che non c'è, il Polesine, che diventa un’Amazzonia immaginaria. “L'acqua, inquinatissima, è popolata da creature misteriose – ti immagini i piranha, sono immensi pesci siluro – e anche un piccione può trasformarsi in un tucano”, dice Massimo. “Passi per zone affollatissime ma il canale è deserto. Pensavamo di vedere quelle terre, che conosciamo bene, da un punto di vista insolito. Abbiamo scoperto che in realtà le terre non le vedi, c'è solo l'acqua, tra le sponde alte di cemento e gli alberi. Senti rumori e profumi. Senti che oltre gli argini si muove un mondo al quale per quei giorni non appartieni”.
E poi c'è tutta la fascinazione culturale e immaginifica: i film, i libri e le suggestioni che accompagnano questi due esploratori dell'indolente oceano padano. C'è Gianni Celati e c'è Luigi Ghirri. Ci sono Mark Twain, Zavattini, Antonioni, Bassani. Il serpente che si srotola con “la coda perduta nelle profondità del territorio” non trova però cuori di tenebra ma di fango e di carne. “A volte c'è una sensazione straniante – dice Zamboni – il Tartaro nasce come fiume da risorgive: viene fuori direttamente dagli Inferi. Forse per questo si chiama così”. Il perturbante si stempera nella monotonia dell'orizzonte piatto. Nel poetico e nel grottesco. Tra furti di motoscafi, pescatori di frodo o soste in paesini dimenticati da dio e dagli uomini, “come a Zelo”, ricora Zamboni, “dove abbiamo scoperto una inaspettata 'chinatown di campagna'. Per il resto c'è solo il fiume che ti inghiotte, se spegni il motore ti accompagna solo il silenzio. E puoi incontrare quelle rare persone innamorate dell'acqua. Qualcuno vive su case galleggianti, qualcuno ha perso il compagno di una vita e ha scelto di farsi rapire da quel paradiso strano e perduto, che chi sta dall'altra parte dell'argine non riesce a vedere”.