Negli ultimi anni della guerra, il Collegio Armeno di Venezia rimase chiuso, e mio nonno ospitò nella villa del Dolo, sulla Riviera del Brenta, quattro ragazzi armeni, i fratelli Arshavir e Hrayr Terzian con la sorella Shaké e la sua amica, la bellissima mulatta Maria Hussissian”. Il ricordo di Antonia Arslan va a quei giorni. “Stavano in un appartamentino al primo piano della villa, in due graziose stanzette piene di cianfrusaglie, resti di una zia morta da poco, cugina di nonna Antonietta, che passava i suoi giorni su una poltroncina foderata di tela a fiori sbiadita, raccontando a tutti il grande momento della sua vita, una liaison veneziana con D’Annunzio durata purtroppo soltanto tre giorni. Fu allora che per la prima volta alla mia mente infantile si chiarì l’esistenza degli armeni: esseri familiari che giravano per casa con aria benevola, eppure rimanevano estranei, stranieri, come la zia Henriette che viveva con noi e col nonno. Erano come noi eppure misteriosamente diversi, parlavano in un modo curioso, diverso da mamma e papà, con le parole che uscivano bislacche e un accento strano, morbido come una caramella. Nel parco della villa atterrò poi un giorno un paracadutista inglese che s’intese subito con noi bambini, ma che una sera venne prelevato da altri armeni, due padri mechitaristi dell’isola di san Lazzaro che lo portarono in salvo a Venezia. Avevano bellissime barbe nerissime e un’aria da cospiratori che mi piacque molto. I ragazzi Terzian mi mostrarono poi i famosi passaporti Nansen, così esotici, con le strane scritte che non riuscivo a decifrare anche se sapevo già leggere; e raccontavano storie affascinanti dell’Etiopia e di Addis Abeba, dove il loro padre lavorava alla corte del Negus. Da allora e per molti anni ‘armeno’ significava per me zii e cugini di Siria e del Libano, parlare francese, avere in casa ogni tanto gente strana, interessante, fonte di racconti orientali e di storie angoscianti che mi incuriosivano terribilmente”.
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