L'ultimo romanzo di Ivan Doig racconta un viaggio che riconcilia con l'America
In questa storia c'è il meglio di una tradizione che rifiuta i fronzoli e va dritta al cuore delle cose. Un’avventura senza eroi, ma con uomini come tutti noi
Un romanzo come un’estate. È “L’ultima corriera per la saggezza” (Nutrimenti, pp. 545, 20 euro) di Ivan Doig, una storia che si snoda in lungo (è il caso di dirlo) e in largo durante i mesi di giugno, luglio e agosto dell’anno 1951. Novanta giorni di una stagione irripetibile nella vita di Donal senza la “d” – la famiglia ha origini scozzesi ma il fanciullo ha anche un nome indiano, Capo Rosso, per via dei suoi capelli –, giorni che cominciano con una corriera e che gli serviranno man mano, sul vassoio della giovinezza, un’indimenticabile serie di prime volte. Donal, orfano, viene spedito all’improvviso, a causa di un’operazione cui deve sottoporsi la nonna – cuoca presso la quale vive da sempre in un ranch di Gros Ventre in Montana – fino a casa di una coppia di zii mai visti nemmeno in fotografia, in Wisconsin. Lui non vorrebbe, ma poco conta. La zia Kitty, sorella della nonna, non sembra essere uno zuccherino (le due non si parlano da una vita, “diciamo che non siamo fatte per cantare insieme”, liquida la questione la nonna la sera in cui Donal fa la valigia) mentre suo marito Doutch pare godere di miglior letteratura.
“La città di Gros Ventre era così lontana da qualsiasi luogo che bisognava andare a prendere una corriera per andare a prendere la corriera. Ai tempi, posti remoti come il nostro venivano serviti da una compagnia locale che aveva più nomi che vetture, la Rocky Mountain Stage Line and Postal Courier, le cui corriere somigliavano a berline Chevrolet allungate e capaci di ospitare dieci passeggeri oltre all’autista e al sacco della posta”. Il suo viaggio comincia così: Donal ha con sé una valigia di vimini appartenuta al nonno, un portafortuna, e 1.600 miglia davanti, tutte da percorrere su un Greyhound, creatura mitologica che sta al viaggio come il cavallo al Far West. Seduto su quei sedili attraverserà una terra sconfinata e libera, stirata come un lenzuolo che profuma di frontiera e di frontiere, quelle tra un’età e un’altra, tra una vita e un’altra, tra un se stesso e un altro. Il profumo onesto dell’aria aperta: John Ford diceva che era questo che gli interessava raccontare. Be’, con Ivan Doig siamo da quelle parti. Qui non ci sono cowboy, però ci sono rodei (il giovane Donal se ne inventa campione); non ci sono duelli ma ci sono piccoli momenti memorabili (tipo perdere la corriera e raggiungerla a bordo di un camioncino preso al volo come durante un inseguimento); non ci sono eroi ma c’è un Jack Kerouac quando ancora non era Jack Kerouac. E c’è la strada. L’avventura degli uomini. Nativi americani che proiettano ombre melvilliane. E c’è Ivan Doig, l’ultimo decano dell’ovest, l’aedo proletario che si congeda dai suoi lettori con quest’ultima opera.
Per amor di chiarezza, e soprattutto in tempi ossessivi come questi in cui si cerca il capolavoro, e tutto è capolavoro, e non possiamo che leggere il capolavoro: questo romanzo non è un capolavoro. Chi desideri labirintici intrecci, faulkneriane sovrapposizioni di piani narrativi, rimandi simbolici e cavalloni oceanici, si rivolga altrove. Qui non si ansima in salita. “L’ultima corriera per la saggezza” non si inerpica per vette filosofiche sulla cima delle quali respirare l’ossigeno rarefatto della perennità letteraria. Qui c’è una storia semplice; una storia vera, diremmo con Lynch. Non solo: c’è il meglio di una tradizione che rifiuta i fronzoli e va dritta al cuore delle cose, infatti le cose si vedono tutte, nitidamente, vengono incontro al lettore una dopo l’altra grazie a una narrazione cristallina, ariosa e libera come quel che racconta. Fatta di paesaggi che sfilano fuori da un finestrino, di linee d’orizzonte, di città ritratte prima che abitassero il nostro immaginario e di tutto il trovarobato umano che conosciamo: hobo e avventurieri, storyteller e solitari, vecchi manigoldi e giovani integerrimi, ex detenuti affamati e iscritte a club femminili che vanno in gita al parco. Un racconto che riconcilia con l’America, proprio come ve lo farebbe un nonno se vostro nonno fosse Clint Eastwood, uno che ha vissuto la giovinezza di un’epoca fertile, ingenua, contraddittoria e bellissima. Ma, soprattutto, in questo romanzo c’è l’uomo. L’uomo che siamo tutti. L’uomo che dice: la vita è un viaggio a zig-zag. L’uomo che è sempre un ragazzo davanti al destino e al futuro.