Sul Monte Analogo
Il capolavoro di Daumal appena ripubblicato, il film di Jodorowsky e una domanda sulla vita reale
L’alpinismo è l’arte di percorrere le montagne affrontando i massimi pericoli con la massima prudenza. Viene qui chiamata arte la realizzazione di un sapere in un’azione. Non si può sempre restare sulle vette, bisogna ridiscendere… A che pro allora? Ecco: l’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto. Salendo, devi prendere sempre nota delle difficoltà del tuo cammino; finché sali, puoi vederle. Nella discesa, non le vedrai più, ma saprai che ci sono, se le avrai osservate bene. Esiste un’arte di dirigersi nelle regioni basse per mezzo del ricordo di quello che si è visto quando si era più in alto. Quando non è più possibile vedere, almeno è possibile sapere”. Così scrive lo scrittore e filosofo francese René Daumal (1908-1944), a proposito del Monte Analogo. Il romanzo Il Monte Analogo. Romanzo d’avventure alpine non euclidee e simbolicamente autentiche di Daumal, studioso del sanscrito e della filosofia induista, viene scritto fra il 1938 e il 1943 e ora è stato ripubblicato da Adelphi (18 euro) in una nuova edizione arricchita di testi dell’autore che offrono preziose indicazioni anche sul prosieguo del racconto rimasto incompiuto, è una sorta di fiaba filosofica e una metafisica dell’alpinismo. Daumal – anche alpinista – intreccia, con sapienza, racconto e riflessione sul linguaggio, e in particolare sulla parola poetica. Ne risulta una sorta di meta-narrazione simbolica o parabola sapienziale (ascoltiamo, ad esempio, la storia degli uomini cavi o della Rosa amara) che va sottraendo, attraverso il linguaggio, il linguaggio a se stesso. Una voce ci parla come dall’infanzia, udiamo un suono familiare. “La parola è un suono interiore”, constatava il noto pittore russo V. Kandinsky ne Lo spirituale dell’arte. Quanto più alta è la vetta, tanto più l’ossigeno va preservato e il cibo calcolato, così, se la visione molto ci commuove e ci sopravanza, siamo inevitabilmente impacciati e soppesiamo le parole, le smarriamo, ci sentiamo spiritualmente elevati: è il luogo dello svelarsi del sacro, il mistero ci parla, siamo tutt’uno con il mistero, il nostro io scompare e ci abbandoniamo. “Qual è colui che sognando vede (Dante, Divina commedia)”, così gli otto viandanti (fra cui l’autore stesso con lo pseudonimo di Théodore) del romanzo allegorico si imbarcano sullo yacht Impossibile di Arthur Beaver (medico e alpinista inglese che, guarda caso, si chiama Arthur, come il poeta simbolista Rimbaud, autore de Il battello ebbro) alla volta del Monte Analogo. Da sempre, la montagna è “la via per la quale l’uomo può elevarsi alla divinità e la divinità rivelarsi all’uomo”. “In primo luogo, il Monte Analogo deve essere molto più alto delle più alte montagne finora conosciute”. Inoltre, “perché una montagna possa assumere il ruolo di Monte Analogo, è necessario che la sua cima sia inaccessibile, ma la sua base accessibile (…). Deve essere unica e deve esistere geograficamente. La porta dell’invisibile deve essere visibile”. In quanto invisibile ai più, il Monte Analogo potrebbe essere ovunque. In base a calcoli minuziosi, i pellegrini scoprono che si trova nel Pacifico meridionale. Raggiungono così Porto delle Scimmie, sulle rive del Monte, e inizia l’ascensione.
Al romanzo di Daumal è ispirato il film La montagna sacra (1973) del noto regista weird A. Jodorowsky, che fu assistente di M. Marceau ed esperto di mimo. Il film si propone come “osmosi” tra Il Monte Analogo e L’ascesa al Monte Carmelo di San Giovanni della Croce (N. Settis, Cinelapsus, 18-8-2016). I pellegrini si mettono in cammino, questa volta verso la Montagna Sacra dell’Isola del Loto, dove pare vivano nove saggi che conoscerebbero il segreto dell’immortalità. Se in Daumal il mondo si svela come illusorio e “anomalo”, in Jodorowsky, invece, è mostruosamente reale e grottesco, è come un teatro di marionette mosse dai fili del potere, come la parata di rospi e camaleonti costretti a inscenare la conquista del Messico. La denuncia di Jodorowsky è radicale: attraverso una saturazione lisergica e orgasmica dello spazio filmico, con siparietti di ispirazione alchemica, fa esplodere la potenzialità sanguinaria e genocida generata dalla stupidità umana, mentre la furia del Cristo/Ladro (il Matto dei tarocchi) distrugge i suoi simulacri. Il regista, infine, svela la finzione filmica: “Non siamo che immagini, sogni, fotografie. Non dobbiamo restare qui, prigionieri. Romperemo l’illusione. Questa è magia! La vita reale ci attende”. Ma che cos’è, dunque, la vita reale?