Ha esultato chi in quarantena si è ritrovato ad aver per casa un cane. Un guinzaglio in mano in quei giorni reclusi ha significato possedere la chiave della libertà e ha trasformato in occasione di uscita quel che dopo anni a portar fuori il cane si percepiva come schiavitù. Meno bene è andata a chi aveva un gatto. Non che sia mancata a taluni l’audacia di infilare il collare al micio in guisa di scusa per l’evasione. I gatti tuttavia hanno saputo esser salvifici in altro modo rispondendo al nostro bisogno di consolazione. Con un gatto sulle ginocchia a far le fusa, le interminabili giornate condite d’ansia e noia con un perenne orecchio al tg sono state meno amare. Quando al gatto è piaciuto di concederci i suoi favori, certo. Un tempo si credeva che l’unico modo perché restasse in casa fosse sottrargli un po’ di pelo da mettere sotto la gamba del tavolo. Che funzionasse resta dubbio, non è creatura che possa trattenersi contro volontà. L’ho imparato presto dalla genia felina che ha affollato la mia infanzia in campagna. Lo sapeva anche Flaiano se diceva “il mio gatto fa quello che io vorrei fare, ma con meno letteratura”. La letteratura dal canto suo si è lasciata affascinare da quello sguardo ipnotico che Anna Maria Ortese definiva divino. Se ne fece ammaliare Elsa Morante che alla sua siamese Minna dedicò una poesia.
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