Il problema di articolare il legame tra lavoro e vita buona in una società come la nostra
Perché è importante rimettere al centro l’umano nella sua interezza
Nel mondo greco, come sappiamo, il lavoro rappresentava l’occupazione naturale degli schiavi, i quali, parole di Aristotele, come “strumenti animati” e come “animali domestici”, provvedevano alle necessità della polis. “Senza il necessario è impossibile sia vivere sia vivere bene”, si legge nella Politica aristotelica. E gli schiavi servivano appunto a procurare il “necessario”: un’operazione allora molto più complessa di quanto sia diventata oggi, almeno in occidente. L’uomo del lavoro non era molto di più che una sorta di ingranaggio nel ciclo incessante della natura, un tutt’uno quasi con essa, tanto ne era soggiogato. In questo senso il lavoro richiamava quindi la maledizione biblica, più che la grandezza di ciò che è “umano”. Ma in epoca moderna il lavoro consumerà la sua vendetta. Il fanatismo calvinista ne fece un dovere sacro, Locke e Smith lo esaltarono rispettivamente come la fonte di ogni proprietà e di ogni ricchezza, la rivoluzione industriale dell’Ottocento e pensatori come Hegel e Marx completarono l’opera. Da umile concetto subordinato nel sistema dei concetti morali, il lavoro acquistò così un significato pratico e teorico sempre crescente; assunse dapprima il carattere di una vocazione-professione (Beruf), poi si spinse tanto in alto nella gerarchia dei concetti filosofici da diventare il concetto chiave di tutta una visione del mondo e della vita, addirittura l’essenza stessa dell’uomo. Aver scoperto “il lavoro come l’essenza, l’essenza che si avvera dell’uomo”: questo il grande merito che il giovane Marx attribuirà a Hegel.
Lo scarto rispetto alla maledizione biblica del lavoro necessario e del lavoro come occupazione naturale degli schiavi mi sembra evidente. In Marx, specialmente nel giovane Marx, viene soprattutto esaltata la dimensione umana, sociale e socializzante del lavoro. “L’operaio mette nell’oggetto la propria vita” si legge nei Manoscritti parigini del 1844 (altro che il lavoro come semplice merce!); “Nella lavorazione del mondo oggettivo l’uomo vede se stesso in un mondo fatto da lui” (il mondo umano, il mondo attraverso il quale abbiamo accesso persino alla natura, considerato come frutto del lavoro dell’uomo); nel lavoro l’uomo si pone “in rapporto all’altro uomo” (la socialità come costrutto del lavoro).
Se per Aristotele la vita buona poteva aver luogo soltanto perché il “cittadino” veniva sgravato dal lavoro necessario fatto dagli schiavi, per Marx essa diventa l’esito di una logica immanente al sistema produttivo che, liberando il lavoro dall’alienazione, ne fa il propulsore di una “vera umanizzazione della natura e una vera naturalizzazione dell’uomo”. In ogni caso qui non si tratta di scegliere tra Aristotele e Marx, bensì di superarli entrambi. In particolare credo sia importante considerare come il lavoro sia una componente fondamentale della condizione umana, non l’unica, né sufficiente alla nostra piena realizzazione. L’uomo può col suo lavoro formare e trasformare la natura, inclusa la natura umana, proprio perché ha una sua specificità non riducibile in toto a natura. Dunque non un lavoro come roba da schiavi, né un lavoro da celebrare come l’“essenza” dell’uomo. Il lavoro è piuttosto ciò che ci libera dalla schiavitù dei nostri bisogni naturali, consentendoci nel contempo di formare e trasformare la natura, di vincere il suo fluire incessante, al fine di costruirci un mondo entro la quale poter vivere in libertà o, per dirla con Aristotele, poter “vivere bene”. C’è dunque un vincolo strettissimo tra lavoro (la scienza, la tecnica) e vita buona; un vincolo che non può più essere adeguatamente tematizzato né in termini aristotelici, né in termini marxiani. Se è vero, come diceva Marx, che “l’operaio mette nell’oggetto la propria vita”, allora non si può considerare il lavoro una degradante attività strumentale. Anche le nostre attività strumentali, infatti, proprio perché nostre, proprio perché attività “umane”, rappresentano sempre l’attualizzazione di un significato che non è mai soltanto strumentale. Nel lavoro è sempre qualcosa di “umano” che si realizza; a rigore soltanto lo “schiavo per natura”, lo “strumento animato”, diciamo pure, il robot potrebbero svolgere un’attività meramente strumentale, non “umana” appunto. Qualsiasi cosa facciano, gli uomini hanno insomma un progetto, un’idea, un sogno da realizzare che è molto di più di ciò che concretamente fanno; lavorano in vista di una qualche idea di vita buona, non perché il lavoro esprima marxianamente la loro “essenza”. Ma come si articola questo legame tra lavoro e vita buona in una società come la nostra, dove da un lato l’automazione, combinata all’enorme sviluppo dell’intelligenza artificiale, sembra ridurre sempre di più le possibilità di lavoro e, dall’altro, gli uomini che lavorano, i più fortunati, faticano sempre di più a dare senso al loro lavoro?
Il tema dell’automazione e delle macchine sempre più intelligenti apre invero sul nostro presente e sul nostro futuro prospettive piuttosto inedite. E’ un po’ come se il lavoro, divenuto digitale, debba fare i conti con una sorta di nuova religione, la religione dell’innovazione continua, che non ha altro fine se non se stessa. La qual cosa per molti versi è comprensibile e forse inevitabile. Ma proprio per questo occorre tematizzarla anche su un altro piano: quello di una politica che sappia in qualche modo governarne gli effetti, senza semplicemente assecondarla. E’ appena il caso di citare il ruolo che nell’odierno scenario globale vanno acquisendo grandi aziende come Google, Apple, Amazon, Facebook o Microsoft. Queste aziende non sono più soggetti economici che cercano di avere un’influenza politica, secondo un costume in uso pressoché da sempre nelle società capitalistiche, ma stanno diventando veri e propri soggetti politici; non si limitano a dirci che cosa dobbiamo comperare, ma come dobbiamo vivere; tendono insomma a colonizzare l’intero universo della nostra vita sociale, col rischio di una crescente e inesorabile privatizzazione del sociale e del politico. Sono ormai lontani i tempi in cui la “piazza digitale” veniva interpretata in termini di democratizzazione. Incomincia a vacillare la stessa fiducia che i posti di lavoro perduti a causa della crescente automazione-digitalizzazione possano essere compensati dall’apertura di nuove professioni in altri campi. Sta succedendo insomma qualcosa che Hannah Arendt aveva paventato all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso come rischio che la società del lavoro glorificato come l’essenza dell’uomo potesse dar luogo a una società in cui il lavoro sarebbe diventato un privilegio di pochi, con una fetta sempre più grande di disoccupati privati addirittura della loro essenza, visto che questa è stata fatta dipendere dal lavoro. Un paradosso drammatico che ovviamente ci costringe a un ripensamento radicale sia del senso del lavoro, sia del senso della politica. In gioco stanno la nostra dignità e le nostre libertà, strette tra la grande potenza non soltanto economica delle grandi multinazionali e la crescente impotenza della politica, sempre più propensa ad assecondarle. Ciò che voglio dire è che oggi la vera questione non è più mercato contro stato, ma piuttosto il pericolo di una loro saldatura, magari in stile cinese. Di qui la necessità che gli uomini del lavoro, tutti gli uomini, specialmente coloro che hanno a cuore la libertà, a cominciare da quella economica, riprendano al più presto, aristotelicamente, la “parola”, quella parola che, come diceva Aristotele, “è fatta per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e l’ingiusto; questo è, infatti, proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, di avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e degli altri valori”.
Semplificando molto, direi che è soprattutto una questione di educazione. E di certo i nuovi scenari ci mostrano l’insufficienza di sistemi educativi progettati esclusivamente in funzione dell’ingresso nel mondo del lavoro (in Italia non abbiamo fatto neanche questo). Bisogna rimettere al centro l’“umano” nella sua interezza, la percezione che abbiamo di noi stessi e del mondo nel quale viviamo, la libertà, quindi il rischio e la responsabilità anziché le previdenze apparentemente senza condizioni da parte dello stato o di chicchessia. E’ anche su questo che oggi, quando parliamo di lavoro, automazione, disoccupazione, faremmo bene a riflettere.