La prima volta che Alastair Campbell mi ha parlato della sua depressione è stato a Firenze, nell’aprile del 2018. Io volevo discutere del governo giallo-verde che si stava formando in quel periodo, della Gran Bretagna frastornata dalla Brexit, del futuro della sinistra soprattutto, il Labour e non solo, ma lui girava attorno al buio, al suo e a quello di questa stagione politica, intrecciandoli. Era in Italia per partecipare a un seminario internazionale sulle malattie mentali, ripeteva il suo slogan – “Dobbiamo parlare” – come se stesse guidando il movimento di liberazione contro il tabù della depressione. Era senza pudore, così come “Living Better”, il memoir-manuale che Campbell ha appena pubblicato nel Regno Unito, è senza pudore, perché nascondersi, mentire, fingere è uno sforzo che se sei depresso non riesce a sostenere – e non serve a nulla. Campbell dice tutto, con candore e brutalità, non si assolve mai, ringrazia la sua famiglia, va a cercare le origini di queste sue ossessioni psccotiche, le rintraccia nei suoi fratelli, in suo padre, in suo figlio, crolla, si rialza, si commuove e fa commuovere, e infine guarda oltre. Il racconto personale è una guerra logorante in cui non ci si salva mai, Campbell non si salva mai: mi aveva raccontato che è in grado di riconoscere i sintomi della depressione in arrivo, ha preso dimestichezza con questo suo precipitare, eppure la conoscenza e l’esperienza non servono, “è sempre come la prima volta”. Uguale, anzi peggiore, perché pensavi di aver trovato il modo di prevenire e circoscrivere questo buio e invece no: vince lui.
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