Lettera a Vasco Rossi, con molti cuori
A Blasco, che da mistagogo della religione della gioventù si fa pedagogo e maestro di vita adulta
Maleducato, esagerato, spericolato, uno che non dorme mai, uno pieno di guai, un vitellone del 7 febbraio 1952, uno anche invecchiato (lo dice un tizio che è nato un mese prima di lui), e finalmente diventato saggio, ecco a voi Vasco Rossi, che ha venduto 40 milioni di copie, si è fatto 22 giorni di galera perché era fatto, e ora si presenta come un bel manzo di Modena, vabbè Zocca, capace di mandare a farsi fottere varie specie di negazionisti, di mettersi le mascherine anche sulle mani, di inchiodare il nostro amico bellimbusto Nick Porro storpiando il suo nome come faceva con gli avversari il romagnolo Pietro Nenni, altro grande vitellone del maggiore socialismo italiano, e dunque botte a quel tal Nicola Perro, botte festaiole, aperte come la sua cadenza, come la sua faccia, come la sua storia di bravo ragazzo ribelle che si fa vivaddio conformista in età matura e più che matura.
Uno Steve McQueen bariccato alla grande, o meglio un bevitore di Lambrusco al Roxy Bar, è la nuova prova della capacità sistematica dell’italiano di farsi assorbire dalla realtà, di trasformarsi e mascherarsi, mascherina chirurgica, seguendo il solco basso padano delle circostanze, immergendosi nel fiume vivace, turbolento delle cose che cambiano, dei tempi che attendono da lui nuovo riscontro, fino al punto di diventare, da seguace del re del cool, idolo chiassoso e verace di una vita protetta, del civismo nel rapporto con gli altri, perché va bene non dormire mai, sognare sempre, ma fino a un certo punto. Nel mio monumento deamicisiano a questa grandissima nuova icona vivente scriverei: “A Blasco che da mistagogo della religione della gioventù si fa pedagogo e maestro di vita adulta”.
Pedagogo allegro, polemico, bizzarro, strapaesano, uno della provincia internazionale del rock che non la beve, un apota, l’italiano che ha ricordato le rotelle della carrucola alla quale si appendevano i piccoli trasvolatori del Panaro per andare a scuola, proprio nei giorni in cui era tanto cool prendersela con i banchi a rotelle monoposto. Il dottor Rossi, che come me non è laureato ma è molto dottore, quasi quasi professore, ha messo la sua immaginazione di diplomato di talento al servizio della patria nel momento del bisogno, e contribuisce a liberare dall’anticonformismo convenzionale della sottocultura libertaria la buona e brava famiglia italiana. Mattarella dovrebbe nominarlo seduta stante Cavaliere di Gran Croce e forse anche Cavaliere del Lavoro. I giornali dovrebbero dedicargli poster, i poeti versificarlo con empito carducciano, l’intellettuale ganzo prendere esempio da lui, da questo sommo e divagante eroe della vita che scansa i pericoli, le esagerazioni e la maleducazione.
Solo un tipaccio che ha fatto tanti soldi con il suo lavoro e ha fatto sognare e fremere anche troppo in decenni fatali come i Settanta e gli Ottanta poteva requisire d’autorità l’hangover di generazioni che ora si trovano, nel Ventunesimo secolo, a combattere i postumi dell’ubriachezza dei padri e delle mamme. Dietro al suo largo sorriso mascherato, le sue parole bagnate nell’ortica, dietro ai suoi video assassini e creatori, dietro a Vasco si intravede una tremenda e focosa verità: la maleducazione è l’ultimo rifugio della bella gente.