La tragedia (e la farsa) dell'uomo comune che si illude di essere originale
Dostoevskij, “l’idiota” e una triste storia non ancora finita. Il destino di chi non crede alla propria maschera di originalità
L’imprescindibile Dostoevskij, nel più audace, emozionante e sgangherato dei suoi quattro capolavori, L’idiota (1869), apre la quarta parte con una improvvisa digressione sulle “persone comuni” e sui personaggi letterari che tentano di rappresentarle. Il problema non è affatto marginale, perché le persone comuni sono “la maggioranza” e senza i loro “tipi sociali” una narrazione realistica sarebbe impossibile. È proprio il romanziere che ha creato i personaggi più anomali e fuori del comune (il caso estremo è senza dubbio il principe Myskin, “l’idiota”) a dedicare una digressione saggistica di alcune pagine alle identità individuali più diffuse nella società.
Quando un narratore o un drammaturgo, per esempio Gogol’ o Molière, vogliono darci un’incarnazione che sia un esempio della più comune umanità, tendono tuttavia a esagerarne certi tratti per renderli più riconoscibili e perché si abbia più facilmente l’impressione di averli incontrati innumerevoli volte. Nella realtà “le caratteristiche tipiche dei personaggi fittizi appaiono come diluite nell’acqua”. Il problema è: “Come deve comportarsi il romanziere con le persone ordinarie, completamente ‘comuni’, come deve proporle al lettore e renderle in qualche modo interessanti?”. La soluzione migliore, dice Dostoevskij, è ritrarle nei casi in cui “la loro ordinarietà non vuole in alcun modo rimanere quello che è, ma vuole diventare a tutti i costi originale senza avere i mezzi per esserlo”.
Anche in queste osservazioni mi sembra che Dostoevskij sia stato profetico. Il fenomeno stava emergendo alla metà dell’Ottocento, quando l’individualismo, l’originalità, l’eccezionalità romantica diventava maniera e mito borghese. In precedenza il genio romantico era stato il contrario del borghese, l’antiborghese: ora aumentavano i borghesi che volevano vivere una vita romantica. In Francia, avanguardia sociale europea, già un decennio prima, nel 1857, Gustave Flaubert aveva pubblicato il suo romanzo Madame Bovary, sognatrice moglie di provincia che si autodistrugge nel sogno di vivere un’esistenza originale romanzesca.
Il guaio per queste persone e personaggi è che hanno qualcosa ma non abbastanza per uscire dalla banalità e dalla “sfera della routine”. E qui Dostoevskij ne schematizza il ritratto e ne sottolinea l’infelicità o il ridicolo: “In realtà non c’è niente di più triste che, per esempio, essere ricchi, di buona famiglia, di bell’aspetto, abbastanza istruiti e intelligenti, persino buoni, e al tempo stesso non avere nessun talento, nessuna peculiarità, neanche una stranezza né un’idea originale, insomma essere proprio ‘come tutti’ (…). Di persone come queste al mondo ce ne sono moltissime e anche più di quante sembrerebbe”.
Ci siamo. A questo punto, non essendo originali, ci si illude di esserlo mettendosi in maschera e adottando un certo stile, indossando certe apparenze: “Ad alcune delle nostre signorine è bastato tagliarsi i capelli, portare occhiali azzurri e definirsi nichiliste per convincersi d’un tratto che inforcare quegli occhiali equivalga ad avere ‘convinzioni’ proprie. A qualcun altro è bastato provare un po’ di qualcosa che rassomiglia a un sentimento umano e universale per convincersi che nessuno meglio di lui è in grado di sentirsi all’avanguardia dello sviluppo sociale. A un altro ancora è bastato acquisire un’idea qualsiasi o leggere una paginetta qualunque senza capo né coda per credere di avere ‘idee personali’ generate dal proprio cervello. La sfrontatezza dell’ingenuità arriva in certi casi a livelli stupefacenti”.
Finte convinzioni proprie, sentirsi all’avanguardia per aver letto una paginetta senza capo né coda e infine la sfrontatezza dell’ingenuità… Il quadro diagnostico è perfetto, vale per l’intero Novecento culminato nel Sessantotto, e nel Duemila vale ancora. La cosa comunque non finisce qui, perché manca ancora il lato infelice, avvelenato e a volte tragico della faccenda. È quando la persona comune è abbastanza intelligente da non riuscire a essere soddisfatta della propria maschera di originalità: “Anche se qualche volta ha immaginato di essere un individuo geniale e originalissimo, ciò nonostante conserva in sé il tarlo del dubbio che lo conduce alla più totale disperazione. Anche se si rassegna, è completamente avvelenato interiormente dalla vanità frustrata”.
Gradualmente Dostoevskij rivela che quel veleno della vanità frustrata e quell’ossessione inestinguibile di emergere da una condizione onestamente comune possono portare a compiere “un’azione indegna” e perfino un crimine. In Russia, nella seconda metà dell’Ottocento, la gioventù intellettualizzata, culturalizzata, stava diventando un problema. Nasceva un “superomismo” sociale di minoranze e gruppi che volevano “fare qualcosa” di fuori del comune, senza avere talento abbastanza preciso per capire “che cosa”.
Accadde che alcuni individui fossero attratti dal “delitto filosofico” e che gli ambienti “rivoluzionari” cominciassero a essere infestati da questa idea: uccidere per sentirsi superiori alla morale comune e liberi dai lacci della mediocrità. Il fenomeno esplose nel secolo successivo, il Novecento, con gli “uomini d’avanguardia”, gli “uomini speciali”, gli “uomini superiori”, i rivoluzionari in politica e in arte, i quali (come aveva detto già prima Leopardi) volevano “rifare tutto” perché “nulla sapevano fare”. Questa triste storia non è ancora finita e si ripresenta fra i giovani a ogni nuova generazione.