Nell’Italia del dopo Covid le repliche di Montalbano hanno assunto un sapore ancora più sinistro. L’ennesimo ciclo di vecchie puntate era partito a fine marzo, in pieno lockdown, per “far fronte all’emergenza del Coronavirus” (così recitava il comunicato Rai), ma in quel momento tutta la tv era un flusso indistinto di “programmi registrati prima del dpcm sul Coronavirus” e Montalbano era solo uno dei tanti. Poi l’emergenza è rientrata, le scuole hanno riaperto, la televisione è ripartita, hanno rimesso in lockdown quelli del “Grande Fratello”, ma le repliche sono rimaste. Lunedì scorso, davanti a una puntata del 2016, il déjà-vu che evoca ormai ogni puntata di Montalbano ci parlava anche di qualcos’altro. Ecco che quella Sicilia arcaica, muta, immobile diventava la metafora perfetta di questo periodo sospeso, raggelato, intrappolato in una temporalità ciclica, tra un’emergenza alle spalle, l’incubo dei nuovi contagi e un vaccino che c’è ma non c’è ancora. Una metafora limpida, cristallina, perfetta. D’altronde, in un’ideale sala d’attesa del purgatorio italiano, nel brutto televisore a diciotto pollici sulla parete scrostata, sopra il display eliminacode (rotto), trasmetterebbero in loop una replica di Montalbano.
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