Marika Bret ieri non è tornata a casa. La responsabile delle risorse umane di Charlie Hebdo è stata costretta a fuggire a seguito di minacce di morte da parte degli islamisti. Bret fa parte del nucleo originario che aveva rilanciato il giornale satirico nel 1992. Ieri ha deciso di rendere pubblica la propria “esfiltrazione” da parte dell’intelligence francese per allertare sulla minaccia islamista in Francia. “Vivo sotto la protezione della polizia da cinque anni”, ha raccontato Bret al settimanale Point. “I miei agenti di sicurezza hanno ricevuto minacce specifiche e dettagliate. Avevo dieci minuti per fare le valigie e lasciare la casa. Dieci minuti per rinunciare a una parte della propria vita sono un po’ poco ed è stato molto violento. Non tornerò dove abito. Sto perdendo la mia casa per via dell’odio, quell’odio che inizia sempre con la minaccia di instillare la paura. Sappiamo come può finire”. Bret spiega che essere cacciati di casa nel bel mezzo del processo per gli attentati del 2015 è un segnale che dovrebbe allertarci del disastro in corso. Dall’inizio del processo e con la ripubblicazione delle vignette su Maometto, a Charlie Hebdo hanno ricevuto minacce di ogni tipo, comprese quelle da al Qaida, per “finire il lavoro dei fratelli Kouachi”. A Charlie la sicurezza è imponente. “L’indirizzo della nostra redazione è segreto, ci sono cancelli di sicurezza ovunque, porte e finestre blindate, agenti di sicurezza armati, difficilmente riusciamo a fare entrare qualcuno”. Marika Bret è un’altra clandestina della libertà di espressione. Il primo fu un professore di filosofia. Domenica 17 settembre 2006. Robert Redeker si alza presto per scrivere un articolo per il Figaro sull’Europa alle prese con l’islamismo. Mercoledì 20 settembre. “Professor Redeker, prenda le sue cose e venga con noi”, gli ordina l’intelligence. “Non può più restare a casa. Le minacce di morte contro di lei sono serie, molto serie”. Ora Redeker è in una “casa sicura” alla periferia di Tolosa. E’ in fuga. Qualche mese fa, il “caso Mila”, la liceale che aveva criticato l’islam sui social. L’indirizzo della sua scuola e della sua casa è pubblicato sui social, costringendola a una peregrinazione per proteggere la propria incolumità. Il giornalista Éric Zemmour è stato aggredito più volte sotto casa, mentre la giornalista francomarocchina Zineb el Rhazoui si è vista pubblicare sui social l’indirizzo dell’abitazione. Il fondamentalismo islamico è riuscito a sfollare numerosi cristiani perseguitati, come Asia Bibi, costretta a fuggire in Canada dopo la condanna a morte e il travaglio giudiziario in Pakistan. Ma riesce anche a trasformare numerosi cittadini europei in apolidi all’interno del proprio paese, condannati a morte senza più fissa dimora, costretti a vivere in anonimi caseggiati, sconosciuti anche ad amici e familiari. E ci siamo abituati. Il giorno della condanna a morte iraniana, Salman Rushdie e Marianne Wiggins, la moglie americana da cui divorzierà, furono prelevati dalla loro casa a Islington, a nord di Londra, dal servizio segreto inglese, per essere portati nella prima delle oltre cinquanta “case sicure” in cui lo scrittore è vissuto per i dieci anni successivi. Sono bolle dove si galleggia, dove non si ha più identità ma si è “un caso”. Bolle in cui si può anche scomparire per sempre. Dieci anni fa, una giornalista del Seattle Weekly, Molly Norris, disegnò una caricatura di Maometto in solidarietà con gli autori di South Park, pesantemente minacciati per avere irriso l’islam. L’ultimo articolo di giornale che ha parlato di lei iniziava così: “Avrete notato che la striscia di Molly Norris non è contenuta nel numero di questa settimana. Questo perché Molly non esiste più”.
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