"Non posso dilungarmi di più su Raffaello che, voi l’avrete ormai compreso, non fa parte precisamente della schiera dei puri pittori ma degli illustratori grafici di ideali di vita. La sua è letteratura figurata non pittura…”. A scrivere queste parole, nella calda estate del 1914, è un professore ventenne che prepara una “Breve ma veridica storia della pittura italiana” per i suoi studenti dei licei di Roma. Malgrado quel professore si chiami Roberto Longhi, e malgrado la modernità sia stata poco generosa con il pittore della Scuola di Atene, ancora oggi un giudizio così sprezzante fa sobbalzare il lettore, tanto più che è espresso come se si trattasse di cosa scontata, su cui non vale la pena insistere. Nel 2020, a cinquecento anni dalla morte di Raffaello e a cinquanta da quella di Longhi, il calendario ci offre una buona occasione per spiegare come uno dei massimi simboli del nostro Rinascimento artistico sia divenuto agli occhi del massimo critico d’arte del nostro Novecento la sineddoche di tutto ciò che andava rifiutato.
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