Liberal e alfiere del progresso, l’autore del “Declino della violenza” è accusato di essere un criptoconservatore da una parte della sinistra Usa. Due chiacchiere con Steven Pinker, che critica Trump e resta fiducioso nella natura aperta delle giovani generazioni
È solo un grande incompreso, Steven Pinker, quando le sue parole che dovrebbero suonare così cristalline e rincuoranti, così chiare e sollevanti nel riflettere dati e cifre apparentemente incontrovertibili sulle sorti magnifiche e progressive del genere umano nei tempi spesso bui in cui viviamo, vengono accolte dal fastidio e dall’insofferenza di chi ci si aspettava che le apprezzasse? (“Just rejoice!”, come disse Margaret Thatcher alla stampa britannica all’indomani della vittoria nelle Falkland)? O c’è qualcosa di più complesso e oscuro nei suoi vivaci detrattori, in quella parte di American Left che nel suo paese, gli Stati Uniti, gli sta intentando una specie di processo per deviazionismo centrista, eccessivo ottimismo e lesa inclusività, accusandolo non troppo velatamente di essere un trumpiano mascherato?
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