L'intervista della domenica
La luce della gran costanza
Le prigioni dell'autofiction, del corpo, delle copertine, degli altri, del sogno americano. Conversazione con Costanza Rizzacasa sul suo libro, la sua vita, il suo gatto, le foto, il passato, le illusioni, la mutilazione
Costanza Rizzacasa D'Orsogna vive in una casa ariosa, ordinata e bella. Tutto è bianco tranne la cucina, che è rossa, tutta, dal frigorifero agli sgabelli.
Il divano è il regno di Milo, del quale so ogni cosa perché Costanza lo ha raccontato in un libro: un micio trovatello che suo fratello le regalò anni fa perché “è tutto nero e a casa tua ci sta un amore”, cammina sbilenco, acrobata ubriaco, perché gli manca il cervelletto (ha una ipoplasia cerebellare – i nomi delle malattie sono importanti in questa storia, lo vedrete). Lo osservo gattonare: saltella, arcuato e irreale, e sembra una molla con le zampe. Il libro su Milo è diventato presto una favola molto amata per bambini, anche se non era nato come favola per bambini: era un libro su un gatto bizzarro, un racconto giocoso e lieve sulla convivenza con la disabilità.
Conoscevo anche questa casa, nella quale Costanza fa entrare i suoi lettori e i suoi “followi”, come li chiama lei. Fa la giornalista, scrive sul Corriere, è molto brava sui social network: è lì che ha inventato un modo di raccontare, e poi di raccontarsi, che all’inizio era pieno d’invenzione, e poi ha preso a essere realistico, reale: quello che chiamiamo auto narrazione.
Del suo corpo massiccio, che è stato la sua croce per molto tempo, ha imparato a raccontare e dire tutto, è stata la prima in Italia a farlo in modo così intimo e ugualmente sapiente, informato, serio. Una delle prime a farci capire che il tema dell'obesità è sociale e politico ed esiste, a tentare di fare un ordine del discorso da istruire per affrontarlo.
Qualche giorno fa, quando è uscita la copertina di Vanity Fair con Vanessa Incontrada nuda, ha scritto, twittato, detto in tv: sulle copertine delle riviste patinate ci voglio vedere un corpo come il mio. Costanza Rizzacasa la chiamano sempre tutti a parlare di disturbi alimentari e bodyshaming, da quando è uscito il suo ultimo libro, “Non superare le dosi consigliate” (Guanda), che l’ha trasformata in un’esperta, una consigliera, un’attivista. Ho voluto incontrarla per parlare di come questo la turbi, se la turba. Di come l’autofiction imprigioni sempre più spesso gli autori nelle loro storie, di come ogni libro diventi una materia e chi lo ha scritto ne diventi automaticamente il suo professore. Chiedo a lei se questo sia un bene, un male, una chance, una noia, una sfida. Di certo, il suo libro è stato accolto, amato, consigliato, ma è stato anche rimpicciolito e spostato. Un grande romanzo sul vergognarsi, sul mentire, sul mutilarsi è stato inteso come il diario di una donna con “un corpo non conforme”, un’autofiction della quale giornali e trasmissioni televisive hanno voluto la voce narrante, hanno voluto lei, che da scrittrice e giornalista s’è ritrovata investita di un ruolo di esperta, consulente, aiutante, amica, motivatrice. È successo perché Matilde, la protagonista del suo libro, le assomiglia. Attraverso Matilde, Costanza s’è liberata definitivamente di molte cose, che poi però gli altri hanno voluto che lei incarnasse. È una semplificazione in cui incorriamo tutti, è lo scotto che paga chi si dona, ha a che fare con la nostra incapacità di leggere qualcosa che non stia addosso a chi scrive, della nostra superbia nel ridurre tutto, dell’andare sempre dai molti all’uno e mai il contrario.
Il tuo è un libro di successo e questo successo è costruito in larga parte su un fraintendimento. Te ne senti responsabile?
È successo tutto molto in fretta. Quando ho deciso di scrivere il libro, il mio editore era entusiasta dell’idea e non ha mai usato un’etichetta: per me e per lui era la storia di una bambina che cresce con una madre che si ricorda di lei soltanto quando deve correggerla, che le trasmette le sue ossessioni, la porta a mentire, nascondere tutto, anche il pane che mangia, e la convince di essere sbagliata, così da farle sviluppare una relazione con sé stessa e con il mondo fuori fatta di aspettative, pressioni, terrore, ansia, inibizione. Non avevo in mente di fare un libro sul bodyshaming. Mentre lo scrivevo, però, successe che fui insultata in modo molto violento mentre ero dal parrucchiere. Mi capitava spesso e dappertutto, ma quella volta decisi di reagire. E lo raccontai su Twitter. Se ne parlò così tanto che il mio giornale, il Corriere, mi chiese di farci un pezzo, e valutai a lungo con il mio editore se fosse il caso di farlo, proprio perché temevo che avrebbe inscatolato il romanzo quando sarebbe uscito e che tutti avrebbero pensato che si trattava di una storia che parlava di me e del mio corpo. Decidemmo di rischiare e pubblicai l'articolo. Dopotutto eravamo forti del fatto che il libro era un'altra cosa, raccontava un'altra storia. Invece, aver raccontato quell'episodio accese su di me una luce che è stata poi usata per leggere anche il libro. Da me ci si aspettava un libro completamente autobiografico sull'obesità, e in questo, da molti, è stato trasformato il romanzo.
E poi sei diventata Matilde, la protagonista del libro.
A lei ho prestato la mia infanzia, il mio peso, mia madre. Ma è Matilde, non Costanza. Ricordo che scrissi le prime settanta pagine in pochissimi giorni, di getto, tirai fuori tutto quello di cui mi ero sempre vergognata e di cui avevo avuto paura, me ne liberai e lo consegnai a quella storia, facendomene narratrice e testimone. Mandai i primi capitoli all’editore, che ne fu entusiasta e mi chiese di consegnare tutto il resto del libro prima della data che avevamo pattuito originariamente. E questo naturalmente mi bloccò per mesi. Poi ricominciai e fu difficilissimo staccarmi da me e dalla mia storia, ma capii che era essenziale. Che non tutto quello che mi riguardava e che mi era successo aveva un valore anche per gli altri. E feci di Matilde un personaggio afflitto da un tema che mi affascina da sempre e che ho ritrovato nella mia scrittrice preferita, Toni Morrison: l'automutilazione.
Perché dici: "Mi bloccò, naturalmente"?
Per anni ho pensato di non essere all’altezza di un romanzo. Poi Stefano Cagliari mi chiese di scrivere con lui “Storia di mio padre”, il libro in cui raccontò di Gabriele Cagliari, suicida di Tangentopoli, e qualcosa cambiò, soprattutto nella mia vita: mi costrinse a tornare in pubblico per la promozione e così mi fece vedere e poi affrontare il punto in cui ero. In quegli anni avevo smesso di uscire, ero ingrassata enormemente, non avevo ancora capito di quale disturbo soffrissi. Ero sempre stata ossessionata dal mio corpo, avevo oscillato tra anoressia e bulimia, avevo sempre aspettato di essere perfetta per uscire di casa e con perfetta intendevo magrissima, non mi ero resa conto di aver sviluppato un altro disturbo, che aveva una connotazione precisa e delle conseguenze precise, per esempio perdere quasi completamente la percezione di quanto mangiavo e di quanto peso prendevo: nemmeno il fatto che i vestiti smettevano di entrarmi mi metteva in allarme, mi fermava.
Quale disturbo?
Il binge eating, disturbo da alimentazione incontrollata. Me lo diagnosticai da sola, studiando.
Cioè consultando internet, la cosa che non si deve assolutamente fare quando ci si ammala?
No. Studiando. Io ho sempre studiato tutto. È una delle cose che mi hanno salvata. Stavo in casa, rifiutavo lo sguardo degli altri, perché lo sguardo è la cosa peggiore, peggio degli insulti, delle battute, delle taglie troppo piccole, del mondo che sembra misurato e ordinato in modo da non includerti. Una delle prime volte che uscii dal mio isolamento, incontrai alcuni colleghi che non mi riconobbero neppure. E così, e dopo le presentazioni del libro con Stefano, mi resi conto che ero malata e cominciai le mie ricerche, perché sapevo che dare un nome al proprio malessere è il solo modo per sconfiggerlo. Il nome è l’inizio di tutto. Il binge eating è stato riconosciuto molto tardi negli Stati Uniti, e quando è successo è venuto fuori che una maggioranza delle persone con disturbi alimentari ne soffriva. Prima, nessuno era in grado di curarlo e nessuno lo considerava importante: si tende sempre a curare soltanto la sofferenza che si è in grado di riconoscere. Il resto viene sottovalutato. Anche per questo, quando scoprii il mio disturbo, decisi di occuparmene in una rubrica: pensai fosse mio dovere, ero e sono una giornalista di servizio.
Hai sempre voluto fare questo lavoro?
Quando i miei genitori mi mandarono a studiare alla Columbia, a New York, capii che sarebbe stato possibile. E di più: mi convinsi che sarei diventata qualcuno di importante. Erano gli anni Novanta, in America c’era questo Sì a tutto che soffiava nelle vite delle persone, ai ragazzi veniva trasmessa una fiducia totale nel futuro e nel fatto che il mondo avrebbe dato loro ciò che volevano se soltanto si fossero impegnati. Questo mi salvò dai miei guai: avere qualcosa di importante da fare. Un ruolo. Quando arrivai a New York e avevo tutte le mie insicurezze e timidezze: nessuno mi aveva mai detto prima che ero brava. Mia madre e mio padre tornavano a casa la sera molto tardi, mia madre faceva i compiti con me, leggevamo la Divina Commedia insieme, ti mostro i quaderni con quello che appuntavamo.
(Mi mostra un quadernino a righe con i suoi disegni e la scrittura di sua madre, su alcune pagine ci sono degli errori: mi dice che li faceva lei perché “io rovino sempre tutto”, poi arriviamo alla pagina in cui sua madre aveva scritto, in rosso, il verso della Commedia in cui Dante introduce l’incontro con Costanza d’Altavilla – “Quest’è la luce de la gran Costanza” – e mi dice che le era stato assegnato un progetto molto impegnativo, quasi asfissiante: la bambina che doveva a tutti i costi diventare americana, di successo, e splendere)
Come ti ha aiutata l’America?
A vent’anni io e due miei compagni di università ottenemmo un finanziamento di 60mila dollari per fare un giornale: riportammo in vita un vecchio trimestrale universitario, io diventai direttore. Soltanto allora ottenni l’approvazione di mia madre, cominciò a manifestarmi in maniera chiara che credeva in me.
Perché tornasti?
Perché mia madre morì e io credetti che non avrei mai superato quel dolore. Allora pensai che fosse giusto starmene a casa e soffrire con la mia famiglia. E invece rimasi sola.
Che paese ti lasciasti alle spalle?
Un posto dove al mio impegno era sempre corrisposta una chance. Dove i professori mi avevano trattata come una loro pari e non perché fossi un genio, ma perché funzionava così. La scuola italiana ti dà un’ottima preparazione di base ma ti mortifica, ti lascia sempre nella subalternità. Quando tornai, infatti, questo modo di fare così violento mi scioccò e tutti i miei guai tornarono a galla. Se laggiù avevo smesso di pensare a come apparivo, e che era più importante quello che facevo, qui ripiombai di nuovo in quella ossessione. Non so che paese siano diventati gli Stati Uniti adesso, manco da molto. So che l’università è diventata sempre più esclusiva e quindi classista: vent’anni fa, invece, era un posto dove una come me faceva parte di un gruppo di giovani promettenti. Ci chiamavano “i quattro moschettieri”.
Come mai la protagonista del tuo libro si chiama Matilde?
Per Matilde Serao. Che era stata una bambina grossa, svogliata, ed è poi diventata una scrittrice che ho amato e amo particolarmente e che volevo omaggiare, che ho sempre ammirato per non essersi mai nascosta. Io per metà della mia vita sono stata ossessionata da come apparivo. Mi invitavano in televisione come capita a tutti i giornalisti e anziché concentrarmi su quello che dovevo dire, pensavo a cosa avrebbero pensato guardandomi. Soffrivo enormemente. Una volta ero ospite di una trasmissione domenicale e mi sentivo così in soggezione, anche perché urlavano tutti, che alzai la mano e chiesi di poter uscire dallo studio. Prima mi dissero che non potevo chiedere la parola per alzata di mano, poi mi lasciarono andare.
Ma che scena splendida!
Io mi sentii morire. Pensavo al mio direttore, che allora era Giulio Anselmi alla Stampa, e pensai al fatto che lui, vedendomi in quel pollaio, mi avrebbe uccisa!
Le persone ti piacciono?
Sì e tanto. Mi sento sempre inferiore agli altri, vedo tutti più belli e colti di me. Mi mettono molta ansia. Ma se prima volevo piacere per forza a tutti, adesso mi importa molto meno. Ho capito che risultavo angosciante. Eppure sono sempre stata molto alla mano. Mi sono chiesta a un certo punto se uscissi con uomini anche molto diversi da me, con lavori magari più umili, perché così potevo dominarli, ammaliarli, ma ho capito che non era così (e che sollievo). Anche perché non riuscivo a piacere neanche a loro. Sono incuriosita dagli altri, spesso li inondo di parole e per molto tempo non ho avuto il controllo nemmeno su questo e dev'esser sembrato che non fossi che interessata a me stessa, a parlarmi addosso. E allora ho cominciato a fare a tutti moltissime domande, e anche quello non andava bene: risultava affettato. Adesso non ci bado più: parlo tantissimo, e mi scuso perché parlo tantissimo. Però non mi limito: parlo comunque tantissimo sempre. Che disastro!
Che meraviglia.
Adesso ho 47 anni. Mio fratello mi ripete continuamente che sono vecchia e io invece non mi sono mai sentita così giovane. Dell'invecchiamento ho questo: sono arroccata nelle mie certezze, che sono poche ma irrinunciabili. La mia solitudine è una delle più importanti. Non mi sono inacidita, gli uomini mi piacciono, magari prenderò il coraggio di andare a cercarli, anche se tutte le volte che li sento parlare mi avvilisco. E poi non sono più disposta a cambiare niente di quello che sono: mitomane, insopportabile, bugiarda, ansiosa, sovrappeso. Amo andare al cinema da sola, la presenza di qualcuno mi distrae. Non condividerei mai casa mia con un compagno, per me si deve vivere separati e a distanza anche dalle persone che amiamo.
Quanta distanza?
Non vivrei nemmeno sullo stesso pianerottolo dell'uomo che amo.
Sei ancora timida?
Sì. Però non sono intimorita. Accettare lo sguardo degli altri e infischiarmene ha avuto un peso in questo, naturalmente. Ma più di tutto credo che mi abbia salvata lo studio. Se studi hai sempre un argomento, hai sempre un dono. E se rimani sola, hai una boa, anzi: una nave. Io studio, studio.
È vero quello che hai detto a proposito della copertina di Vanity Fair con Vanessa Incontrada?
Sì. Penso che ci vorrei vedere una donna come me. Penso che una taglia 46 sia "non conforme" soltanto nella testa dei direttori di giornali patinati italiani. Negli Stati Uniti in copertina ci finiscono da molti anni donne che hanno una stazza che è il doppio di quella di Incontrada.
Poseresti nuda?
Non lo so, forse accetterei come accetto di parlare di body shaming: perché mi sento responsabile. So di avere acceso una luce su questo problema e ora che finalmente se ne parla non posso tirarmi indietro, anche perché se ne parla ancora assai male. Tuttavia, non tollero il fatto che per far dire una cosa importante alle donne, le dobbiamo sempre spogliare. Scrivilo, per favore. Scrivi che mi fa urlare, mi fa impazzire di rabbia.
È un altro cul de sac nel quale potrei dirti che sei andata a infilarti.
Eppure io scrivo di corpo senza che del corpo me ne freghi più nulla. E questo dovrebbe succedere: occuparcene dovrebbe significare che ne abbiamo ridotto la morsa, la presa.
Cosa non sopporti del tuo corpo, adesso?
Quando mio padre mi chiama e mi domanda cosa ho mangiato.
Cosa vorresti per il tuo libro?
Che mi venisse riconosciuto che è letterariamente valido. Vorrei che si capisse che tutto può essere letteratura, anche i temi considerati femminili, bassi e triviali. Il bodyshaming viene considerato robaccia. Me ne sono resa conto perché ho chiesto a moltissimi scrittori di leggere il libro e tutti mi hanno manifestato entusiasmo, ma in privato, come se si vergognassero. Come se il mio libro fosse una specie di best seller senza valore. Ed è successo perché molti hanno creduto che si trattasse di un libro di bodyshaming. In questo paese siamo così avidi di possibilità che assegniamo alle cose un valore in base all’etichetta cui le destiniamo, in maniera molto superficiale e a volte del tutto arbitraria. Non ho scritto un libro sul bodyshaming ma se così fosse ne difenderei la letterarietà ugualmente. E sono sempre più convinta che abbia senso scrivere delle piccole cose che ci capitano ogni giorno: di che cos’altro dovremmo occuparci? Non ho mai capito la spocchia sui temi, la differenza tra alto e basso: la trovo ottusa almeno quanto trovo che sia ottusa e insopportabile la spocchia sull'autofiction. L'immaginazione è parte della nostra materia ed è un peccato che sia ridotta a stile ma mi domando: tutti questi soloni che straparlano di letteratura ottocentesca, di grandi romanzi d'invenzione, cosa ne sanno che anche in Balzac non nascesse tutto dal suo privato?
Se ti venisse riconosciuto un ruolo da autrice pura, placheresti la tua ansia?
Forse no. Però so che la mia ansia perenne danneggia me come individuo ma mi migliora come scrittore. E allora questa vessazione ha un senso.
La scrittura o la vita?
La scrittura è la vita.