Ricomincio dal poeta
La televisione a modo suo, le sigarette, i romanzi, gli assassini, Raffaella Carrà, Troisi, Lundini, la Rai, i rifiuti, la Gialappa's band, la dieta. Conversazione con Giovanni Benincasa
Arrivo in anticipo all’appuntamento con Giovanni Benincasa, l’autore di “Una pezza di Lundini”, il programma che stiamo guardando tutti, inclusi gli infastiditi che sottolineano che loro la tv nemmeno la accendono, e infatti di UPDL ne hanno visti almeno venti pezzi su Twitter, e tutte le volte hanno riso e detto, per una volta non a sproposito, geniale.
Benincasa ha lavorato a molti programmi che abbiamo visto tutti, Carramba! Che Sorpresa, Carramba! Che fortuna, Furore, Matrix, Quelli che il calcio, e ad altri che non abbiamo visto o ascoltato tutti, ma che sono storici (mi scuserà se uso una parola che lo invecchia, tanto è maschio), Libero, VivaRadio2, Bombay (con Gianni Boncompagni, capite?). Renato Zero una volta ha detto: Giovanni è uno che è passato dalle scuole medie alla Rai. In mezzo però c’è una laurea in giurisprudenza che ha preso perché così voleva suo padre –«ero troppo pavido per disobbedire» – e che per fortuna non ha mai usato. Non direttamente, almeno.
Arriva, ha gli occhi azzurri e rossi, è basso, tra poco mi racconterà che Mike Bongiorno gli diceva sempre di non prendersela, per «questo fatto della statura minuta», sebbene lui gli rispondesse tutte le volte che a lui non importava.
Dopo avermi dato il gomito come da DPCM introiettato, Benincasa mi chiede se fumo, e io certo che fumo, gli dico, e lui è contento così può respirare fumo passivo, ché lui è sempre in avida ricerca di fumo passivo, mi dice.
E dire che sono arrivata in anticipo per fumare prima che lui mi raggiungesse, di modo da non dargli fastidio: so che è un tabagista non più praticante.
Com’è la vita senza sigarette?
Libera.
Da cosa?
Prima, quando qualcuno mi diceva qualcosa che non mi piaceva, anziché rispondere a tono e mandarlo al diavolo, fumavo una sigaretta e mi calmavo. Se un qualche tale mi diceva, per esempio, “Bella idea, ma dove lo metto questo programma?”, io invece di fare quello che desideravo e cioè piantargli un coltello nel dorso della mano come nel Padrino, fumavo una sigaretta e mi pacificavo. Le cattive intenzioni passavano, passava tutto. Non era uno sfogo, era proprio un altro cammino che intraprendevo, qualcosa che mi elevava. Ora non ce l'ho più e allora dico e faccio tutto quello che mi passa per la testa: ho perso i freni inibitori. Senza le mie sigarette sono un assassino a piede libero.
E allora perché ha smesso, con tutto il bisogno che c’è in giro di accoltellatori di mani?
Lo avevo promesso alla mia compagna, Giorgia. Ci avevo già provato altre due volte senza riuscirci, forse senza volerlo davvero, ma poi mi sono deciso. Era l’anno scorso, e avevo pianificato di fumare la mia ultima sigaretta il 25 aprile. L’ultima sigaretta è un fatto serio, quindi avevo scelto una data simbolica, il giorno della Liberazione. Una settimana prima però mi si gonfiò la gola in modo anomalo e impressionante, andai in ospedale, mi dissero che se non mi fossi operato nel giro di dieci ore sarei morto. Avevo un flemmone. È una cosa rara che però può capitare a chiunque.
Non mi faccia googlare. Dipende dal fumo sì o no?
No.
E allora perché ha smesso?
Perché quando mi sono svegliato dopo l’operazione avevo un tubo in gola, mi avevano fatto una tracheotomia. Non potevo parlare, mi uscivano solo delle H. Il reparto sembrava un’officina meccanica, si sentivano rumori metallici terrificanti: erano le voci delle persone intubate che avevano imparato a parlare con quella roba in gola. Capii che non volevo mai più mettere piede in un posto così.
Allora è soddisfatto.
Il mio problema è che avrei dovuto fumare la mia ultima sigaretta il 25 aprile. Ma il 25 aprile ero ancora in ospedale, e tutto il mio piano andò in fumo. Non ho mai fumato la mia ultima sigaretta e nemmeno ricordo quando è stata l’ultima volta che ho fumato. È una grave menomazione, capisce? Sono stato derubato.
Terribile.
Sì, terribile. Allora ci ho scritto su un romanzo, esce tra poco, si chiama “L’ultima sigaretta”. Parla di una cosa di cui non so niente: l’ultima sigaretta.
Neanche Serge Gainsbourg era così ossessionato, sa?
Come lui, ho avuto tutte le donne che volevo.
Tutte?
Quasi tutte.
Giorgia lo sa?
Certo, quando l'ho conosciuta e abbiamo cominciato a vederci, sono stato subito chiaro e le ho detto: fermiamoci ora o ti innamorerai di me, è matematico. E lei ha riso moltissimo.
Mi dica, come si fa a far innamorare le donne?
Guardi, è semplice, direi elementare. Basta corteggiare quelle alle quali hai capito di piacere.
Ai programmi le hanno mai detto di no o va come con le donne?
Ho ricevuto tanti no. Della ventina di idee che ho proposto negli ultimi quindici anni, almeno cinque erano molto buone ma non sono mai andate. Il mio programma preferito lo avevo chiamato Bancomat e lo avrei voluto fare con la Gialappa’s Band: mi ero immaginato che stessero dietro lo sportello di un bancomat e la gente che andava a prelevare dovesse spiegare cosa avrebbe fatto con i sodi che chiedeva: loro avrebbero poi deciso a chi darli.
Ma è bellissimo, scusi, perché non lo ripropone?
Perché ormai è invecchiato. Ne ho in mente un altro, lo racconto a lei così mi risparmio la fatica di registrarlo alla SIAE. Ci sono io in cattedra e parlo con delle persone di vecchi filmati RAI, che so, dal ritrovamento della macchina di Moro ai balletti delle Kessler, e parlo, e parliamo, conversiamo amabilmente, come si dice, e a un certo punto esco di scena, mi si sente borbottare, poi ritorno, e dico: “Può votare”, che poi è il titolo del programma. Non faccio il professore, il maestrino. Converso.
È un mestiere che le sarebbe piaciuto fare, il professore?
Moltissimo. Mi sarebbe piaciuto mettere sotto torchio i miei studenti. Un po' lo faccio durante i provini ma non è la stessa cosa. Avrei voluto laurearmi in lettere e studiare letteratura per tutta la vita. Sa, io nasco poeta.
Prego?
Nasco poeta. E sono stato un poeta professionista.
Che significa?
Che lavoravo incessantemente alla costruzione del palazzo, all'impalcatura dei versi. A 21 anni andavo in giro per festival, parlavo con i poeti e gli scrittori, ma soprattutto con i poeti, li frequentavo e smaniavo per incontrarli. Una volta riuscii a parlare con Montale. Anche lui fumava. Gina, la sua governante, se ne lamentava. C'è una poesia bellissima di Montale, "Satura", che dice a un certo punto: «Quante volte t'ho atteso alla stazione nel freddo, nella nebbia. Passeggiavo rosicchiando, comprando giornali innominabili, fumando Giuba poi soppresse dal ministro dei tabacchi, il balordo!». Il vizio nasce là, in quelle ore, nelle vigilie, nelle attese. Ricordo quante sigarette fumai quando andai a incontrare Borges: una dopo l'altra, per ore, senza fermarmi. Avevo letto sul un giornale che sarebbe venuto a Roma e avrebbe alloggiato all'hotel Excelsior, e allora riuscii a mettermi in contatto con la sua assistente, le dissi che ero un giovane appassionato e il mio più grande sogno era incontrare il maestro. In quel momento della mia vita, Borges era effettivamente fondamentale: la mia fidanzata di allora lo adorava, passavamo molto del nostro tempo insieme a leggerlo. Comunque. Alcune ore più tardi, ore che io passai a consumare decine di pacchetti di sigarette, agitatissimo, l'assistente di Borges mi richiamò e mi disse a che ora raggiungerli: era fatta. Chiesi a mio padre dei soldi per comprare le rose alla signora e arrivai nella hall dell'albergo piena di moltissimi giornalisti. Riconobbi tra loro anche Alberto Moravia. Tutti aspettavano di andare da Borges, ma fecero passare me per primo. Quando arrivai sulla porta dell'alloggio e lo vidi, seduto su una poltrona in salotto, mi mancò il coraggio, diventai di sasso, mi sentii minuscolo. Salutai e tornai a casa.
Per una donna ha mai fatto niente del genere?
Ho fatto le cose classiche, ma sempre con grande creatività. Di Giorgia mi sono innamorato perché è più divertente di Massimo Troisi, cosa avrei potuto fare, a parte amarla? Guardi che Giorgia è simpaticissima ed è anche la più bella donna del mondo. Devo a lei la seconda parte della mia vita.
La prima com'è andata?
Non male. In tutto ho cinque figli, a lavoro sono una chioccia, mi sono divertito come un pazzo, mi diverto ancora.
Più che una chioccia pensavo fosse un talent scout.
Una cosa non esclude l'altra ma mi creda: sono soprattutto una chioccia. Credo nell'educazione e nella formazione e penso che le famiglie forniscano entrambe nella maniera più incisiva. Percepisco poi la solitudine di molte persone con cui lavoro, e allora cerco di proteggerle.
Che brava persona.
Ho avuto un papà molto austero, una famiglia molto tradizionale. A pranzo e cena avevo un portatovagliolo su cui era inciso "bontà". E così mi chiamavano, a casa: bontà.
Ma la prendevano in giro!
E questo in quale modo rende la cosa meno seria?
Le faccio una domanda per prenderla in giro, ma mi risponda seriamente: scrive ancora poesie?
Certo che sì. Ne scrivo e ne leggo. Ho cominciato da piccolo, devo tutto a Valerio Magrelli, per me uno dei più grandi poeti viventi italiani. Quando uscì il suo "Ora serrata retinae" avevo vent'anni: significò moltissimo per me, e non soltanto per me. Sa che Fellini girava quasi sempre con un libro di Magrelli sotto il braccio e diceva a tutti di leggerlo?
Ha conosciuto Federico Fellini?
Una volta sola. Lo chiamai per invitarlo a Carramba. Non venne.
E come mai?
Forse perché era Federico Fellini? Una volta invitai anche Lelio Luttazzi. Ricordo che lo chiamai, parlai per parecchi minuti spiegandogli il programma, lui rimase zitto e alla fine disse soltanto: ma lei è pazzo?
Invece sarebbe stato fantastico Luttazzi dalla Carrà. Mi sembra un'idea lucidissima.
Certo che lo era. Non sempre ho idee lucide e infatti guardi dove cazzo lavoro!
Meglio gli Studios di via Tiburtina che lo studio di un avvocato, suvvia.
Di un notaio, per la precisione. Mio padre voleva che facessi il notaio. Mi diceva: ti metti tranquillo, firmi atti, guadagni, scrivi, visto che vuoi pure fare il poeta, e stai apposto. Non aveva torto. Adesso chissà quanti romanzi avrei pubblicato, e senza patire la fame.
Cos’è il talento?
Qualcosa di meno rilevante rispetto all’innamoramento che alcuni riescono a suscitare. Teo Mammuccari aveva talento quando lo vidi per la prima volta in un localetto romano, ma se avesse avuto solo quello non mi sarei precipitato a dirgli chi era e cosa poteva fare, non lo avrei aiutato a diventare chi è. Aveva un qualcosa che non so spiegare, ma che poi ho saputo far lavorare. La parte più divertente del mio lavoro è quando aiuto qualcuno a essere chi è. Non è mai troppo difficile: di solito, un genio sa di essere un genio, ha solamente bisogno che chi se ne rende conto, lo aiuti a capire come tirare tutto fuori e illuminarlo. Quando andai da Mammuccari a parlargli la prima volta, avevo già tutto così chiaramente in mente che il mio entusiasmo sembrava equivoco e infatti lui per prima cosa mi disse: ma sei frocio?
Anche con Valerio Lundini è andata così. Non che abbia pensato che lo stessi adescando: intendo che appena l'ho visto sul palco ho capito che forza aveva. Io stavo cercando un battutista per Battute ed ero molto in difficoltà perché non sapevo dove cercare: oggi non è più come anni fa, quando i comici e gli attori li stanavi in locali e localetti notturni. Lundini mi è stato segnalato dal mio amico Calcutta. E che fosse eccezionale l'ho capito al primo colpo. Del resto come Emanuela Fanelli, anche lei nel cast del programma: una fuoriclasse.
Una volta ha detto che c'è troppo talento in giro e anche troppo perfezionismo: fa fatica a far capire ai suoi collaboratori che le riprese del programma devono essere anche imprecise, sporche.
Sono tutti bravi. Troppo bravi. A me interessa altro, io voglio innamorarmi, essere rapito, e non fissarmi sui dettagli del montaggio migliore del mondo. Chissenefrega.
Che ne dice dei talent show?
Sono finiti, esausti. Vivono in funzione dell’evento finale, come tutta la televisione, che oggi è tesa a fare l’ultimo episodio, l’ultima puntata di una serie che ha messo in scena per raccogliere tutto, esattamente come i talent che vivono per la finale.
La televisione ha i giorni contati?
Non credo, ma senza il traino dei social network avrebbe vita molto breve. "Una pezza di Lundini" è tutto clippato - mi perdona la parola orrenda? - per andare su Facebook e nelle chat. Io ho capito che stava funzionando quando mio figlio mi ha chiesto se un tale sketch che aveva visto sulla bacheca di un suo amico fosse preso dal mio programma: ho capito che stava funzionando. In futuro, credo che la tv sarà un grande libro di storia. Pensi che meraviglia sarebbe se noi potessimo guardare dei video di Napoleone. Tra cent’anni studieranno Renzi dagli archivi Rai dei tg.
Come pensa al pubblico, quando scrive un programma?
Non ci penso, ed è un grave errore. Faccio sempre le cose che io vorrei vedere. Minoli me lo ha detto molte volte: a te bisognerebbe mandarti in onda soltanto perché sei te.
Cos’ha trasmesso ai suoi figli?
Il senso dell’umorismo.
Con quello ci si nasce oppure no.
Allora la generosità.
Che significa?
Aiutare gli altri. Sempre.
Mi dice un ricordo bello di Massimo Troisi?
Massimo è stato il mio migliore amico, negli ultimi anni della sua vita andavo da lui tutte le sere. Una volta mi venne il colpo della strega. C’era anche Ettore Scola. Mi ritrovai sul divano, con Troisi e Scola che mi cospargevano la schiena di olio Tigre, che scottava. E io urlavo e avevo questi due geni addosso.
Crede in Dio?
Non lo chiamo Dio. Ma qualcuno di superiore deve aver fatto spuntare la rosa che nel mio giardino è comparsa quest’anno dopo tre anni che non lo faceva.
Dice Francesco Piccolo che lavorare a Roma fa bene al contenimento dell'ego: i romani si stufano presto di te.
A me la sola cosa che davvero ha ridimensionato l'ego è stata la tracheotomia.
Nella sua biografia, mi affascina "Ti parlerò di te", quel libro che ha scritto su Mario Azzoni, un veggente e bio-terapeuta.
Sentii parlare di lui. Dicevano che era un uomo che capiva come stavi soltanto guardandoti. Troisi in quel periodo stava malissimo, presi appuntamento per lui. Ma la fila era molto lunga, quando mi chiamarono, Massimo era già morto, ma decisi di andare lo stesso. Appena entrai nel suo studio, Azzoni mi disse: ah, che bell'ipocondriaco! E poi mi disse moltissime cose del mio passato. Rimasi sbalordito. Cominciai ad andare spesso da lui e alla fine lo convinsi a farmi fare il libro. Lo sento ancora. Non sbaglia mai un colpo, per me è un mistero stupendo. Comunque sa una cosa?
Mi dica.
Darei qualsiasi cosa per mangiare il suo gelato.
Ne ordini uno, il mio non posso darglielo, sa, per il Covid.
Purtroppo non posso, il mio nutrizionista potrebbe vedermi.
Va anche dal nutrizionista! Non farà anche sport?
No. Però cammino cinque chilometri al giorno.
Una volta ha scritto che la Rai non produce più talenti. Teme più il suo nutrizionista dei dirigenti di viale Mazzini.
Perché è vero che non scommette, non cerca, non gioca, non sperimenta. E poi non sa nemmeno valorizzare quello che ha. Io quest'anno ho vinto il premio della Satira Politica per Battute, e il programma non è in home sulla piattaforma online dell'azienda.
Lo faccia presente alla Rai.
Lo faccio presente a lei.
Spera che leggano quest articolo? Che ottimismo.
Magari non domani. Magari lo leggeranno tra otto anni altre persone. Gente nuova. E capiranno come si fa e come non si fa. Le ho detto che credo nella formazione. E la formazione è un progetto a lunga scadenza. Per questo bisogna sempre creare un precedente.
Cosa manca alla Rai, oggi?
Quello che manca ai giornali: un editore vero che abbia una visione articolata e lucida di quello che l'azienda deve fare da qui a dieci anni.
Cosa manca al nostro tempo?
L'importanza delle cose. Sembra sempre che non succeda mai niente perché tutto passa senza lasciare traccia, niente è mai cruciale, tutto si consuma. Di riflesso, nessuno sembra occuparsi di cose importanti. Eppure di gente capace e interessante in giro ce n'è tantissima. Io di mio sono completamente rapito da Chiara Ferragni, la trovo eccezionale.
Qualcosa resterà?
Certo che sì. Resterà la sola cosa che è sempre restata: la letteratura.