Del fatto che a raccontare certe cose dovrebbero essere gli altri ho avuto conferma grazie a Natalia Ginzburg: “Nel giugno, quando era arrivata a Milano la notizia della disfatta di Waterloo, Manzoni si trovava a sfogliare libri nel negozio d’un libraio, e per l’emozione svenne; aveva riposto speranze in Napoleone, di nuovo, nei cento giorni, e a quella disfatta ogni speranza crollava; da allora, peggiorarono i suoi disturbi nervosi”. Così, dopo aver letto La famiglia Manzoni, qualche anno fa, ho capito che se non fossi stata io a raccontare i miei attacchi di panico ma mi fosse venuto in soccorso lo sguardo generoso di una narratrice eccezionale, tutto sarebbe stato più semplice: chi di noi ansiosi non vorrebbe un biografo che giustifichi le nevrosi del soggetto narrato con la battaglia di Waterloo? E chi, di fronte al tracollo di ideali purissimi e allo stravolgimento dell’assetto internazionale, si permetterebbe di sminuire il resoconto di uno che se la fa sotto, gli tremano le gambe, gli sudano le mani? Non sono più i traumi dell’infanzia e neppure il guardarsi l’ombelico: è la fine di un impero. Perdo il controllo sul mio respiro e sulla mia testa perché la mia etica è ferrea e la mia anima pura, perché se ho scritto un capolavoro di romanzo storico non posso che essere devastato dalle sorti del mondo in ogni istante. E, soprattutto, quello non è un attacco di panico: è resistenza politica. Sentite, fratelli d’ansia, come suonano nobili queste parole? Che sollievo, grazie Natalia Ginzburg.
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