Le piume dell'argo
Come siamo diventati più belli? (C’entra il fallimento sessuale) “L’evoluzione della bellezza” di Prum
Oltre a “L’origine della specie”, Charles Darwin pubblicò un libro quasi altrettanto importante nell’identificare le dinamiche che hanno contribuito all’evoluzione delle varie forme animali. Si chiama “L’origine dell’uomo” e se non ne avete mai sentito parlare è perché in questo secondo lavoro il padre della biologia si concentra sul concetto di bellezza e sulla relativa evoluzione, che non seguirebbe le logiche adattive della selezione naturale – la coda del pavone o il piumaggio di un uccello del paradiso paiono piuttosto svantaggiosi per nascondersi o fuggire in qualunque ecosistema – ma ne seguirebbe altre, di ordine estetico, figlie di logiche ben diverse. La bellezza, servirebbe, pensate un po’, per avere un maggior successo nel campo della riproduzione sessuale.
L’evoluzione della scienza biologica – più realista del re – ha ignorato questa seconda teoria, e per farlo ha ipotizzato una serie di ipotesi che tentano di indicare l’utilità di determinati display estetici per farli entrare, diremmo a martellate, nel quadro di ipotetiche quanto poco dimostrabili logiche adattive. E’ tempo di recuperare la seconda delle chiavi di volta teorizzate da Darwin e restituire alla bellezza il suo valore nel regno animale. A farlo ci ha pensato Richard Prum, professore di Ornitologia della Yale University e appassionato birdwatcher, autore di un saggio rivoluzionario quanto illuminante, “L’evoluzione della bellezza” (Adelphi, trad. di Valentina Marconi). Prum rimette al centro del campo evolutivo il valore estetico di alcuni display presenti nel regno animale, preferendo i quali (di solito) le femmine indirizzano l’evoluzione specifica assecondando i loro gusti. Selezionando così i partner sessuali il tratto preferito verrà trasmesso alla prole, aumentando al contempo la possibilità di proliferazione dei propri geni anche nelle generazioni successive.
Nel dar seguito a tale “idea pericolosa” di Darwin, che Prum sintetizza nell’espressione “la bellezza capita”, l’autore usa una bella similitudine: “Funziona un po’ come il matrimonio. Spesso i coniugi cercano di cambiarsi a vicenda, e non di rado ci riescono. Ma in generale, per giungere a una soluzione duratura, è necessario che cambi sia il comportamento di uno dei due sia l’idea che l’altro ha di quel comportamento”. Da questa prospettiva è più semplice spiegare alcune scelte altrimenti incomprensibili nell’evoluzione delle specie, come l’incredibile piumaggio sfoggiato dall’argo maggiore, un fasianide della penisola malese, la coda del cui maschio si presenta così: “In una sola penna dell’argo si sommano la livrea della zebra, quella del leopardo, i motivi sui fianchi dei pesci farfalla tropicali, i disegni sulle ali delle farfalle e sui petali delle orchidee. Il disegno sulle penne dell’argo maggiore è così elaborato che ricorda un tappeto persiano”. Un tale livello di ricercatezza espressiva si spiega con un elevato tasso di fallimento estetico agli occhi delle femmine della specie (se la tirano tantissimo).
Ricadute notevoli ci sono anche per quanto ci riguarda: la nostra situazione è più complessa, un po’ perché la scelta del partner è mutua, poi perché i più evidenti display nel nostro caso sono sfoggiati dalle donne (la presenza costante del tessuto mammario, la vita stretta rispetto ai fianchi e l’accumulo adiposo sulle natiche), che a loro volta scelgono concentrandosi più sui tratti sociali che su quelli fisici (dovendosi prendere cura dei figli meglio un maschio che prometta una relazione duratura). Tuttavia c’è un elemento anatomico attentamente perfezionato dai gusti delle nostre femmine: il pene. Scoprire che tra le scimmie antropomorfe i nostri sono di gran lunga i peni più grandi (i gorilla si attestano a 4 cm mentre gli scimpanzé arrivano a 8) potrebbe inorgoglirvi, ma sappiate che se il vostro pene si è sviluppato così è per favorire il piacere femminile (i nostri rapporti durano anche molto più di quelli degli altri primati). Curiosamente però, osserva Prum, malgrado l’evidenza di questi dati a nessuno psicologo evoluzionista è venuto in mente di misurare attraverso le dimensioni del pene la qualità del maschio.