A che ora si mangia?
Con i ristoranti chiusi la soluzione è il pasto unico, ci dice Alessandro Barbero
“Noi italiani siamo pronti a tutto pur di aggirare i divieti, ma non credo che siamo disposti a mangiare alle quattro di pomeriggio”. Chiacchierata con il professore e autore del libro dal titolo "A che ora si mangia?"
A che ora si mangia?, si chiedeva nel 2017 lo storico Alessandro Barbero, professore all’Università del Piemonte Orientale e podcaster di successo, in un omonimo libro pubblicato da Quodlibet sulla storia di colazioni, pranzi e cene. Ce lo chiediamo un po’ tutti adesso che il governo ha chiuso i bar e i ristoranti alle 18. Sarà il trionfo dei servizi di consegna a domicilio? Torneremo a preparare pane e pasta fatta in casa come a marzo? “Il governo chiude i ristoranti alle 18 per impedire che la gente si assembri per cena. Noi italiani siamo pronti a tutto pur di aggirare i divieti, ma non credo che siamo disposti a mangiare alle quattro di pomeriggio”, dice Barbero al Foglio.
“Con il nostro sistema dei tempi è impossibile. Un secolo o due fa non sarebbe stato un gran problema. Nel Settecento e nell’Ottocento era normale che il pranzo si facesse alle tre di pomeriggio o persino alle quattro. Manzoni, se non ricordo male, pranzava alle cinque”. Dunque, propone Barbero, potremmo tornare ai bei tempi in cui c’era un pasto principale a metà giornata e non c’era grossa differenza fra pranzo e cena. “Naturalmente, il pasto alle tre o alle quattro di pomeriggio è per i nulla facenti, per chi si alza tardi. In origine i gentiluomini inglesi facevano il breakfast, si chiamava così perché rompeva il digiuno. Si svegliavano alle sei, lavoravano mezza mattina e alle undici facevano il breakfast. Se insomma tornassimo agli orari del Settecento, con i nobili che pranzavano nel pomeriggio e facevano un unico pasto principale, il nostro governo sarebbe felice”.
Il problema, spiega Barbero, è che quel pasto era molto abbondante, durava un sacco e segnava la fine della giornata. E così è stato fino a cento anni fa. “Fino alla prima guerra mondiale, il pranzo era un pasto di incredibile abbondanza. In una normale casa borghese, dove bastava che a tavola ci fossero i padroni di casa, si mangiavano minestre, primi, un piatto di carne e un piatto di pesce, formaggi. Mangiavano enormemente più di noi, anche perché appunto il pasto era uno solo”. Naturalmente, spiega Barbero, il pranzo durava “due ore e non si tornava a lavoro. Un ricco mercante, un commerciante, un imprenditore o un uomo d’affari lavora al mattino e chiudeva la giornata di lavoro con il pranzo. Poi si andava a teatro o a giocare a carte. Poi a un certo punto gli uomini d’affari hanno avuto bisogno di più tempo per stare in ufficio e gli orari dei pasti si sono spostati”.
È stata anche la globalizzazione a incidere sulle abitudini a tavola? “Non so se sia stata la globalizzazione, di sicuro il tempo del lavoro tende a schiacciare il tempo libero e quindi il tempo dei pasti. È una trasformazione che ho vissuto anche nel corso della mia vita. Mio padre tornava a casa a pranzo tutti i giorni, leggeva il giornale e poi tornava in ufficio fino a tardi. Oggi, come vediamo anche dalle serie tv americane, non solo gli impiegati ma anche gli uomini d’affari mangiano una insalata o un panino seduti alla loro scrivania. Insomma, una barbarie. Il tempo del lavoro si divora tutto il resto. Oltretutto non ce ne sarebbe neanche bisogno: i tedeschi lavorano meno di noi, eppure la Germania ha un’economia più prospera della nostra”. Chissà, magari il telecommuting – come gli americani chiamano correttamente il nostro smartworking – aiuterà sul lungo periodo a riorganizzare tempi e spazi dei pasti. “Intanto consente di recuperare il tempo della propria giornata. Conosco fior di uomini d’affari che si concedono un riposino pomeridiano, che considerano fondamentale per le loro attività. Adesso anche i dipendenti possono concederselo”. Insieme al pranzo delle quattro.