Cima Fertazza in Val Fiorentina sulle Dolomiti bellunesi vista da Selva di Cadore (foto Ansa) 

Scoprire il Veneto /4

Il silenzio delle Dolomiti

Giovanni Battistuzzi

Il monte Schiara sopra Belluno era il luogo dove lo scrittore si raggiungeva per fuggire dal mondo urbano. Le montagne del bellunese sono la porta a quel "tripudio di celeste magia" che sono le Dolomiti

Il traffico aveva iniziato a stringerlo, quasi a strozzarlo. Brontolare di acceleratori che non si abbassavano mai del tutto, di frizioni grattate, di doppiette, stridore di freni, clacson solleticati e spinti a fondo, dialetti che si mescolavano fuori dai finestrini, urla, liti, insulti, mezze minacce tra fari gialli e luci di vetrine e insegne pubblicitarie, fischio del ghisa, alt ferma là, strillone a bordo strada abbaglianti segnala fretta, un uelà urlato, gente che suona, che canta, che parla, che guarda, che se ne frega e va avanti, che borbotta da solo e con altri e che all’improvviso di ferma a dire uè alora? ci muoviamo?

 

Tutto questo continuo movimento l’aveva affascinato. Tutto questo però ogni tanto iniziava a dargli noia, un prurito alle mani, voglia di evasione, un saluto con la mano, forse un ciao forse un gestaccio, uno di quelli che lui non faceva, che anche nell’arrabbiatura si doveva essere signori e un signore certe cose non le fa. Sebbene a volte… insomma a volte mica è semplice sopportare. 

 

Non gli era mai piaciuto sospendere le cose, tanto meno i suoi lavori, per non parlare della sua vita. Un uomo di montagna quale era e si riteneva non lasciava le cose piantate lì senza concluderle. Però, ecco, un uomo di montagna quale era e si riteneva dovrebbe stare in montagna, non certo in città.

 

Guardò fuori dalla finestra. Il giorno si stava già imbrunendo. Il tempo delle giornate dove il sole se la spadroneggiava bellamente e tutto avvolgeva del suo calore appiccicaticcio era passato. E lui si ritrovava attorniato da carte figlie di rimandi e di scuse estive. Le fissò con un certo disinteresse. Si alzò, indossò il soprabito e uscì dalla porta.

 

Quando si dovette fermare la seconda volta perché il fiato gli si era accorciato perché il cuore reclamava posto da quanto batteva si rese conto di essere rimasto troppo a lungo lontano. Certo, anche gli anni iniziavano a essere mica pochi, ma quel pensiero decise di non dare retta. Si sedette su di una roccia e guardò in alto. Il dito dello Schiara non era distante, nemmeno un’ora di cammino e ci sarebbe arrivato e c’era tutto il tempo per ritornare a valle prima che il sole si nascondesse. Tirò fuori dallo zaino la borraccia e diede una sorsata, mentre i suoi occhi cercavano di star dietro a un falchetto che vorticava qua e là del tutto disinteressato a decidersi sul dove andare. Diede un morso al panino che si era fatto preparare dalla siora Marisa: pane e salame. Il gusto era il solito, quello di sempre. Quello che assaporava da ragazzino di nascosto, quello che aveva continuato a mangiare negli anni. E io che pensavo che gli scrittori col successo si facessero raffinati! La siora Marisa i fatti propri non se li era mai fatti. Non poteva iniziare con la vecchiaia. Sorrise, allargò le spalle.

 

 Il gruppo dello Schiara visto dal Col di Roanza (foto di Ivan Fistarol via Wikimedia Commons)
 

Dino Buzzati prese la matita in mano, aprì il quadernetto, iniziò a muovere la mano con insicura velocità. Alberi, prati, speroni di rocce si materializzarono sul foglio di carta. Si fermò. C’era qualcosa di strano. Rimase immobile, con gli occhi sgranati e i sensi allertati. Il vento non muoveva una foglia, il falchetto era sparito, solo una nuvoletta bianca che assomigliava un po’ a un gufo interrompeva la lastra azzurra del cielo solleticato dalle guglie delle Dolomiti che sovrastano Belluno.

 

In molti gli avevano chiesto perché continuasse a preferire quelle montagne alle altre, quelle che affollavano le cartoline, che da tutto il mondo venivano a vedere. Quelle che dal Civetta, passando per Pelmo e Antelao tagliavano rosa il cielo che si schiantava verso la maestosità dentata delle Tre cime di Lavaredo. Oppure quelle altre, quel semicerchio che univa il Catinaccio al Sassolungo al Piz Boè e al Col di Lana, che più di ohhh aveva fatto sospirare a chi li aveva viste specialmente quando imbiondite dall’alba o rosate dal tramonto davano il meglio di sè. In quel momento le parole, lui che era l’uomo delle parole, non gli uscivano. Gli era successo pure di balbettare a volte. Non riusciva a capire cosa ci fosse di sbagliato in quella sua preferenza, non capiva perché si dovessero mettere in competizione le montagne. Non ne amava una più delle altre. Semplicemente quella era la sua, quella che aveva sempre visto, la prima che aveva sognato di raggiungere la cima. Ma era come se quella semplice evidenza non bastasse alle orecchie altrui.

 

A Cortina d’Ampezzo, Arabba, Falcade, Auronzo, Agordo, ovunque, si poteva alzare gli occhi e vedere l’incredibile. Tra i sentieri o sulle funivie, d’estate e d’inverno, gli occhi potevano ristorarsi in quel “tripudio di celeste magia”. E mille erano le scoperte che si celano a molti ché “esistono da noi valli che non ho mai visto da nessun’altra parte… Invece esistono: con la stessa solitudine, gli stessi inverosimili dirupi mezzo nascosti da alberi e cespugli pencolanti sull’abisso le cascate d’acqua… La valle del Mis per esempio con le sue vallette laterali che si addentrano in un intrico di monti selvaggi e senza gloria, dove sì e no passa un pazzo ogni trecento anni, non allegre, se volete, alquanto arcigne forse, e cupe. Eppure commoventi per le storie che raccontano, per l’aria d’altri secoli, per la solitudine paragonabile a quella dei deserti”.

  

Si era pure chiesto “che senso hanno in fin dei conti le montagne? Sono sempre rimaste fuori di noi, non sono state mai nostre, non rispondono al bene che vogliamo loro. Ho paura che siano anch'esse un'illusione”. Eppure sotto la Gusela del Vescovà, quel dito o ago di Dolomia che punta al cielo riusciva ancora a sentirsi avvolto in una ristoratrice solitudine, a scorgere la pianura che l’aveva inghiottito a rendersi conto “che la propria esistenza è una scelta, uno stare di qua o uno stare di là”.

 

La Gusela del Vescovà (foto Wikimedia Commons)

  

Sentì i suoi pensieri rimbombare tra le pareti di rocce e quiete. La matita era ferma nella mano, il blocco note immobile per terra. Si accorse di essersi perso in un silenzio irreale, che i minuti erano passati e pure le ore e anche il sole iniziava a essere stanco e iniziava a calare. Nulla si muoveva attorno a lui e nessun suono si udiva se non il rintocco del suo cuore tra le cime verso cui voleva sempre ritornare. 

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