Cronaca e romanzo, due libri da non perdere
Gli occhi di un terrorista non vedono. Storie che si parlano tra Italia e Spagna
“Leggilo, è un capolavoro”. Il consiglio arriva da un amico spagnolo, il quale, oltre che amico, è un genio. L’ho letto. Occhi che non vedono, romanzo di J. A. González Sainz, è bello fin dal titolo. Peccato che in Italia non si trovi più, esaurito. Ne ho rimediata una copia nella biblioteca Maria Zambrano dell’Istituto Cervantes di Roma, l’abbonamento alla quale mi è costato più del prezzo del libro. Ma ne è valsa la pena.
Un’amica napoletana, invece, mi chiede: “Hai letto il libro di Picariello?” e nel tono della domanda c’era evidente l’invito alla lettura. Angelo Picariello, giornalista politico di Avvenire, ha scritto Un’azalea in via Fani, una cronaca del terrorismo italiano degli anni Settanta arricchita dalle testimonianze di alcuni dei protagonisti di quel decennio luttuoso. Poche analisi e molto racconto di sé. L’azalea del titolo è quella che l’ex brigatista Franco Bonisoli ha deposto davanti alla lapide commemorativa della strage della scorta di Aldo Moro e del rapimento del presidente della Democrazia cristiana in una giornata di maggio del 2013, trentacinque anni dopo aver partecipato all’eccidio del 16 marzo 1978. Picariello lo sa perché con Bonisoli aveva appuntamento lì: “Scorsi a terra, sul marciapiedi, un vasetto con una piantina […]. ‘Franco – gli dissi – è bello che qualcuno ancora si ricordi, dopo tanto tempo…’. ‘Veramente l’ho appena messa io’”.
Sulla lapide ci sono cinque nomi: Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Giulio Rivera, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino. Mi sono ripromesso di citarli sempre ogni volta che scrivo di Aldo Moro. Václav Havel, il grande scrittore dissidente e poi presidente cecoslovacco, dice che “non si dovrebbe dimenticare nessuno di coloro che in un modo o nell’altro hanno pagato per la ritrovata libertà. I torrenti di sangue che abbiamo visto scorrere […] non possono essere dimenticati, perché ogni sofferenza umana riguarda ciascuno”.
Anche il romanzo di González Sainz è una cronaca. Una cronaca dell’esperienza atroce del terrorismo basco. E’ la storia di un uomo a cui l’Eta ha rovinato la vita, e soprattutto il figlio. Un uomo che alla notizia che suo figlio è diventato un assassino si colpevolizza perché non è riuscito a insegnargli che “alcune cose son giuste in questa vita e altre sono ingiuste; alcune cose sono appropriate e altre sono un completo sproposito, da qualsiasi parte le si guardi […], talune sono lecite e altre illecite, tollerabili le une e decisamente intollerabili le altre, come terrorizzare e intimidire e offendere la gente, per non parlare ovviamente di uccidere, uccidere chicchessia”. Non che non gli abbia detto che esiste un limite – perché “sono i limiti che danno dignità alla propria libertà” – “che se lo si supera in condizioni normali è un punto di non ritorno, per quanta muraglia ideologica gli si possa ergere […]; quel limite è la vita degli altri”, ma forse – si tormenta – non gliel’ho ha detto abbastanza o non nel momento giusto.
Walter Di Cera non è il personaggio di un romanzo, è stato un brigatista rosso, un brigatista che non ha mai voluto sparare: “Per me era assolutamente impensabile – parlo proprio di una questione di coscienza – che io potessi sparare su chicchessia, su una persona”. In Un’azalea in via Fani trovate anche la sua storia, che è la storia di uno che ha occhi per vedere.
Il grande rimpianto di Felipe Díaz Carrión – il protagonista di Occhi che non vedono – era di non esser riuscito a trasmettere a suo figlio quella che González Sainz descrive come la sua grande virtù: “Ciò che più che altro ho fatto è stato ascoltare; ascoltare e, soprattutto, vedere, vedere con gli occhi quanto più aperti mi è stato possibile o mi è stato consentito di tenere”. Non sono i precetti morali che rimprovera al figlio, le idee, ma quella insopportabile “villania negli occhi”, che cerca di definire come “quel che si è potuto avere sotto gli occhi e non si è visto”.
Non è che Walter Di Cera non abbia avuto l’occasione per sparare. Ne andava della sua libertà e forse della sua vita. Il 24 settembre 1979 a Roma, via delle Mura Latine, trafficava intorno a un’automobile rubata con Prospero Gallinari quando si avvicinò una pattuglia della Polizia. “Appena si ferma, spara” fu l’ordine di Gallinari. “Osservai i due poliziotti all’interno. Potevo fare fuoco. Non l’ho fatto, soprattutto, perché guardando il poliziotto seduto vicino all’autista, vidi un padre di famiglia. Non l’ho fatto. Non potevo farlo”.
“Vedere qualcosa […] con gli occhi bene aperti – pensa tra sé Felipe Díaz Carrión –, vedere è già subito constatare, e adeguarcisi, farsene carico”. E’ questo che non tollera nel figlio e che gli fa urlare, ben prima che questi diventi un assassino: “Hai sentito che cosa ti ho detto? O forse non hai più né occhi né orecchie né stomaco né altro se non un rancore idiota che ti ha marcito dentro?”. Perché, come nei violenti temporali di fine estate, “ciò che è peggio, a volte spietato, non è tanto ciò che accade, quanto piuttosto il fatto che la sabbia e la polvere che si sprigionano ti si insinuino negli occhi e non ti permettano di vedere, e così, poi, può capitare qualsiasi cosa”.
Qualsiasi cosa, anche uccidere i colleghi del padre poliziotto, non nel romanzo spagnolo, nell’Italia degli anni Settanta. Antonio Savasta guardava le cose e le persone in modo diverso da Walter Di Cera, o meglio, non le guardava in faccia: “Come facevo a voler sparare ai suoi colleghi sapendo che erano persone per bene come mio padre? Eh, separavo le due cose […] noi non sparavamo alla persona ma al ruolo, alla funzione che ricopriva”. Savasta vedeva solo la divisa.
Il nichilismo che ha avvelenato il pozzo della coscienza e alterato lo sguardo, il nichilismo rivestito di grottesca ideologia che trapassa la realtà annullandola, trascende non necessariamente in violenza armata, per cui chi se ne è astenuto può tranquillamente tirarsene fuori. “La mano può aver sparato ma il cuore non essere assassino” ho sentito dire una volta da un sacerdote. Ed è vero. Ma può essere vero anche il contrario, con quella forma di complicità che è l’indifferenza o l’etica della situazione. Renato Curcio, fondatore delle Brigate rosse, in una famosa lettera al manifesto arrivò a dichiarare chiusa l’esperienza della lotta armata (a riconoscere cioè che avevano perso), “ma di chiedere scusa non se ne parlava neanche” scrive Picariello. “Hai mai sentito parlare di piazza Fontana? Della strategia della tensione? O della Trilaterale?” controdomandava. Quanti, senza il coraggio o la temerarietà delle ultime conseguenze di questi giudizi, l’hanno pensata e la pensano così e si sono atteggiati e si atteggiano (si pensi al terrorismo islamista piuttosto che al nuovo antisemitismo mascherato da antisionismo) ad atarassici calcolatori dei torti e delle ragioni delle supposte parti in guerra?
“Al tremendo dolore degli eventi, come se non fosse sufficiente – dice Felipe Díaz Carrión, l’unico ad andare per quasi un anno in piazza a protestare in silenzio contro il sequestro dell’imprenditore nella cui fabbrica lavora – bisogna comunque aggiungere il dolore che causa l’incredulità dei più, la loro incredulità e la loro indifferenza”. E’ il dolore che “alla fine ti dà il colpo di grazia”. Il dolore per il fatto “che i più non vogliano capire […] e se la svignino e ti isolino volendo pensare che ‘qualcosa avrà pur fatto’ o che ‘a ognuno il suo’; che si lascino crescere una corazza d’indifferenza e codardia così attaccata alla pelle che arriva a formare parte integrante di loro stessi e permettere soprattutto che possa cuocerglisi dentro il più vile degli intrugli, quello che confonde la vittima con il colpevole e all’uno riserva il comportamento che dovrebbe riservare all’altro”.
L’amico che mi ha consigliato di leggere Occhi che non vedono ne ha incontrato l’autore, e gli ha chiesto dove originasse questa differenza tra il padre e il figlio. Tra un uomo che ha visto i franchisti uccidere suo padre e non ha coltivato in sé l’odio (“L’odio è come bere un bicchiere di veleno credendo che così ucciderai quello che odi”, Javier Cercas) ma ha ereditato da lui la capacità di commuoversi guardando la terra che zappa. E un giovane che il reale non lo vede più. Capisco che è giusto quello che mi domandi – gli ha più o meno risposto González Sainz – ma non so risponderti, ci devo pensare, ci devo tornare su.
Forse è questa la grandezza di chi è veramente uno scrittore, che non esprime solo sé stesso, nel suo scrivere si coglie l’altro. Per questo, a volte, si stupisce quando si rilegge. Sono io? Che credo sia la stessa domanda che si è fatto Franco Bonisoli quando, trentacinque anni dopo aver lì svuotato il caricatore del suo mitra, è tornato in via Fani con un’azalea in mano.
Io mi sono messo nei panni di González Diaz di fronte alla domanda del mio amico madrileno, e sono andato a rileggermi pagina 139 del suo romanzo.
“Senza smettere neppure per un istante di guardare ciò che lo guardava, senza smettere di sostenere lo sguardo – di guardare dritto negli occhi era forse meglio dire? o era forse la sua definitiva umiliazione? – di ciò che teneva i propri occhi posti indelebilmente su di lui: quello sguardo inesorabile e ubiquitario che, guardasse dove guardasse, attorno a lui o dietro nel tempo, era ormai l’unica cosa che vedeva e l’unica cosa che lo tirava come se fosse un paranco, l’unica cosa che lo abbacinava come un riverbero che disseccava nei dintorni tutto ciò che non fosse esso stesso e non nascesse da esso e riduceva tutto a un solo bagliore, a un solo punto fisso brunito e affilato al massimo dal quale tutto dipendeva e tutto era attratto”.
Più volte Felipe Díaz Carrión si chiede se “ci dicono qualcosa le cose e non solo la nostra necessità d’implorare che qualcosa ci parli”. Di fronte al figlio in galera che gli urla addosso tutto il suo disprezzo si ritrova muto, come se il bene fosse indicibile e le parole inani. Ma è lo stesso Felipe Díaz Carrión (o è González Diaz?) che dice: “Non si sa ciò che si può arrivare a dire quando lo si dice” e “sull’orlo di tutto e proprio di fronte al nulla”, aprendo “gli occhi al massimo affinché vi fosse in essi spazio sufficiente per contenere quel che si estendeva tutto intorno […] ebbe la certezza […] che le parole avrebbero acquisito di nuovo tutto il significato la cui restituzione anch’esse stavano reclamando a gran voce”.