il romanzo-saggio della scrittrice russa
Nascondere e apparire: Marija Stepanova e i meccanismi della postmemoria
Non è solo l’impossibilità di ricordare dopo il mostruoso annullamento dell’Olocausto e dei gulag, maanche la capacità di lasciar scorrere il sangue di una ferita originaria, quella del nostro essere tutti accomunati dalla medesima matassa, di cui però abbiamo smarrito il filo
Il passato è smisurato, e questo è noto a tutti; la sua sovrabbondanza (che è costantemente paragonata ora a una piena ora a un diluvio) soffoca, la sua pressione travolge qualsiasi volume del conscio, e sfugge completamente sia al controllo sia a una descrizione esaustiva” (“Memoria della memoria”, Marija Stepanova, Bompiani, 2020). Il romanzo-saggio della poetessa e scrittrice Marija Stepanova, nata a Mosca nel 1972 e pronipote della rivoluzionaria ebrea Sarra A. Ginzburg, è a tutti gli effetti un evento culturale. Il libro è un pellegrinaggio nella memoria famigliare e collettiva attraverso la Russia del XX secolo: è la Russia di Lenin, Stalin, Gorkij, Mandel’stam, Pasternak, dei pogrom, dei gulag e dei soviet.
La Stepanova dichiara il proprio intento, quello di indagare i meccanismi della memoria e del suo linguaggio frammentario introducendo un nuovo concetto, quello di “postmemoria”: essa non è solo l’impossibilità di ricordare dopo il mostruoso ed efferato annullamento delle identità dell’Olocausto e dei gulag, ma si traduce nella capacità di lasciar scorrere il sangue di una ferita originaria, quella del nostro essere tutti accomunati dalla medesima matassa, di cui però abbiamo smarrito il filo. “Il racconto di sé – annota – si rivela il racconto degli antenati che, disposti alle tue spalle a semicerchio come un coro operistico, ti concedono di eseguire un assolo, non fosse che la musica è stata scritta oltre settant’anni fa”.
Come il passato appare e scompare, ma è sempre presente, così nella narrazione della scrittrice – fra corrispondenze, oggetti-souvenir, saggi brevi e folgoranti intuizioni – luce e ombra si alternano e si combinano in una dissolvenza in cui antenati e viventi (già futuri antenati) assumono gli uni le sembianze degli altri. La dissolvenza dissolve i confini. E questa dissoluzione che cosa, invece, conserva? Con chi possiamo parlare, veramente, di com’è andata? Chi può supportarci nella ricerca della verità di una leggenda famigliare o collettiva, arricchire di dettagli il nostro goffo affabulare o aiutarci a concimare i fiori piantati dai nostri nonni sui bordi dei vasi, colmi di lacune? Diremmo che lungo i corridoi della storia, quelli che non vede quasi nessuno, marcia un groviglio inestricabile di figure; a guardare meglio, scorgiamo un andirivieni di individui che si somigliano nel loro passare distratti.
Come nel quadro “Ingresso alla metropolitana” di Mark Rothko, anime sfuggite all’umana commedia scendono le scale, inabissandosi nel sottosuolo. L’uomo del sottosuolo di “Memorie dal sottosuolo” di Dostoevskij è sprofondato nella riflessione sull’esistenza: condanna lo spirito del XIX secolo e l’irrazionalità dell’uomo nella storia. Ma qual è la vera vita? Quella-di-sotto o quella-di-sopra? Non comincia, forse, proprio quando varchiamo la soglia d’accesso del mondo sotterraneo alla ricerca del frammento perduto della nostra bambola di porcellana? Il sottosuolo inghiotte e nasconde segreti.
Da bambini – ricorda la Stepanova – “per costruire un segreto era necessario chinarsi a terra: scegliere il posto, scavare una buca, guardarsi attorno e controllare che non ci fosse nessuno a vedere, riempirla di contenuti preziosi coprirla con un frammento di vetro pulito, cospargere e pareggiare per bene la terra”. Oggi, dove sono finiti quei segreti? I bambini ascoltano ancora le voci antiche del sottosuolo? Appare lampante come le strutture stesse dei giochi infantili evochino spontaneamente i meccanismi della futura postmemoria: nascondere e far apparire, nascondersi e farsi riconoscere. Nel sottosuolo dell’infanzia risiede il segreto della permanenza.