Le interviste della domenica
L'antipatico domato
Il lavoro culturale, il pop e l'antipop, il Rolling Stone, MTV, l'editoria, le scommesse, le ripetizioni, il rischio, Valerio Mastandrea, lo snobismo, la solitudine, la salute mentale. Conversazione con Massimo Coppola
Com’era bella MTV quando era MTV. La usavamo come radio e tgmondo, era la nostra isola che non c’è. Avevamo quindici o vent’anni, tornavamo a casa da avvilenti venerdì sera che non immaginavamo ci sarebbero mancati, e guardavamo Brand:New, e scoprivamo musica nuova, non sempre ascoltabile ma comunque affascinante, e a raccontarcela c’erano Paola Maugeri, Enrico Silvestrin, Alex Infascelli e Massimo Coppola, che erano per noi una specie di fratelli maggiori, vicini irraggiungibili, il più delle volte antipatici. Coppola era il più antipatico di tutti, sapientone e bello, con quell’aria naïf e sardonica che mitigò soltanto quando girò “Avere vent’anni”, il documentario cult – all’epoca cult era parola che usava parecchio – su come se la passavano i ventenni italiani, specie quelli che vivevano in provincia: noi. Coppola era un trentenne, girò il paese per tre anni, raccolse novanta ore di storie, personaggi, chiacchiere e diventò un interprete, un esperto di generazioni, se così si può dire – e anche se non si può dire, all'epoca si disse eccome. Da allora ha fatto di tutto: autore tv, regista, consulente Rai, editore, direttore del Rolling Stone. La sua casa editrice, ISBN Edizioni (gli altri soci erano Giacomo Papi e Luca Formenton), pubblicò il primo libro di Michela Murgia, "Il mondo deve sapere", e fece scoprire al paese quello che succedeva nei call center; Richard Brautigan; l’Antimeridiano di Luciano Bianciardi e di Oreste Del Buono; Symon Reynolds; due libri anonimi contro Ratzinger; due saggi filosofici sui Simpson e su South Park. Era pop culture per fichi (radical chic?) ed era imperdibile.
Nel 2016, quando l’indie rock diventò popolare e c’era da raccontare la transizione dall’underground al pop per mano di una generazione di musicisti che era stata adolescente quando lui girava "Brand:New" e "Avere vent’anni", chiesi a Coppola di intervenire sul Foglio, all’interno di un numero monografico. Fu odioso. Quando gli domandai che musica ascoltasse, mi rispose: “I Roxy Music quando vado a correre, all’alba, piangendo”. Lo detestai. Ed è la prima cosa che gli dico, quando finalmente il suo telefono la smette di fare le bizze e mi spiega che sta cercando di accendere il camino, a Ibiza, e io penso che non ha ancora perso il vizio di fare il situazionista, e mi preparo a fare una gran fatica.
Sei ancora così antipatico?
Ma no! Lo fui quella volta perché ero stufo di rispondere a domande sull’indie, sulle generazioni, i ventenni, i trentenni, lo Zeitgeist.
Sai com’è.
Lo so, me l’ero cercata. “Avere vent’anni” è probabilmente la cosa più importante e bella che ho fatto, e la trasmise una MTV oggi impensabile, piena di idee, talento, energia, nonostante fossero anni di berlusconismo rutilante, in cui in televisione non c’era niente o quasi che raccontasse la realtà, e io mi sentivo fortunato e libero, mi sentivo il re del mondo. Da allora ricevetti per anni proposte di rifare il format su altre generazioni, sui nuovi o i vecchi ventenni, e mi cucirono addosso questo ruolo di esperto, di aedo dei ragazzi, che mi stufò e che feci di tutto per levarmi di dosso.
Come?
Rifiutandomi di proseguire il documentario, di fare altri programmi simili.
E rispondendo da stronzo ai giornalisti.
Anche, sì. Mi dispiace. Ero anche molto insicuro e lo sono tuttora, come tutti quelli che devono inventarsi ogni giorno il proprio lavoro.
Almeno non fosti sgarbato.
Non ricordo niente.
Ora sei sgarbato.
No, dai. Sono sincero. Sai che una volta mia madre mi ha detto che il mio romanzo le ricordava Philip Roth? Era un complimento farlocco, ma mi fece piacere lo stesso. Apprezzai lo sforzo: conteneva la verità del suo amore per me, che mi sembrava l'unico fatto veramente rilevante.
Le bugie a questo servono, no?
Non lo so, non ne dico molte. Non so mentire, non sono particolarmente diplomatico, riesco quasi esclusivamente a fare quello che voglio fare, nel modo in cui credo vada fatto.
Visto che fai quello di nicchia, dimmi: del giudizio del pubblico te ne freghi o ci badi? Lo assecondi o lo sfidi?
Symon Reynolds, grandissimo intellettuale e critico musicale, dei Joy Division scrisse che non erano diventati più di quello che erano stati per un mix di ansia e snobismo. A Ian Curtis dei JD non sono degno di allacciare le scarpe ma credo che a me capiti qualcosa di simile: non riesco a mediare perché non lo so fare e perché non lo voglio fare. Avere idee è la cosa con cui ho sempre sognato di poter vivere e ci sono riuscito: semplificare le mie idee per arrivare a tutti mi interessa meno.
Rendersi accessibili però non significa semplificare. E rendersi accessibili non è un dovere?
Dipende da che prezzo ha, se stravolge o definisce la forma e la sostanza di quello che vuoi dire. Ho fatto lavori diversi e in quelli autoriali non mi sono mai posto il problema del pubblico. Quando firmo con il mio nome e basta, il problema del pubblico deve porselo chi scommette su di me, non io. Invece, quando ho lavorato per altri, in Rai e al Rolling Stone, è stato diverso: ho fatto i conti con i gusti di spettatori e lettori, ed è stato giusto così.
Quando sei dall’altra parte della scrivania, quando sei tu quello che deve scegliere e rischiare, su cosa scommetti?
Una volta, quando dirigevo il Rolling Stone, feci un colloquio a un ragazzo di ventidue anni. Mi trattò malissimo, fu supponente e spocchioso, in quel modo potente e fiero che riescono a permettersi solamente i ventenni. Lo feci parlare e poi gli dissi di scrivere sessanta righe sul disco dei Blur che era appena uscito. Me le consegnò poco dopo ed erano ottime: lo assunsi. In due ore avevo un nuovo redattore. Quando trovo intelligenza e talento in qualcuno, faccio di tutto perché possa sentirsi libero e lo metto nelle condizioni di esserlo: lo tratto come vorrei essere trattato io.
Cos’è il talento?
E che ne so?
Come che ne sai?
È una roba che sa chi non lo ha.
Tu ne hai?
Certo.
E come lo sai?
Perché ho fatto molte cose, molte delle quali sono riuscite bene, me ne hanno portate di nuove.
Se domani ti chiamasse lo zio d’America e ti nominasse suo erede universale, su cosa investiresti i soldi?
Fonderei un brand editoriale. Ma lo farei a patto di avere avere un editore consapevole che nei primi quattro o cinque anni si va in perdita. Tanto ci vuole per costruire una identità e un universo di senso.
Ho visto che scrivi su Domani.
Mi ha coinvolto Mattia Ferraresi e ne sono stato onorato. Non avevo mai scritto su un quotidiano.
Un giornale lo fonderesti?
Potrebbe essere uno dei prodotti di quel brand editoriale. Perché no.
Parliamo di quello che, invece, stai facendo.
Sto lavorando a un documentario insieme a Lorenzo Mieli, con la sua casa di produzione: raccontiamo le storie di alcuni della generazione X che fanno cose interessanti. E poi a una serie tv con Valerio Mastandrea, per la Indigo Film. L’idea l’ho avuta durante il lockdown di marzo: Valerio è un attore sopravvalutato, e io voglio rendere giustizia alla sua mediocrità.
E come?
Mettendolo in situazioni mediocri, è ovvio.
Lui lo sa?
È entusiasta.
Chi è un artista di talento?
Uno che è terrorizzato dalla vita. Chi non lo è non vive una opposizione forte e non ha bisogno di approntare i mezzi necessari a sopportarla e raccontarla. Il primo elemento da riconoscere è la rabbia, il non poter fare a meno di quel racconto, e poi un certo nervosismo e una incapacità di relazionarsi in modo adattativo al mondo. Chi ha talento cerca di modificare il mondo anziché farsi modificare.
Perché MTV è finita così male?
Perché è arrivato Internet.
Allora avrebbe dovuto finir male anche la Rai.
No, perché la Rai già era immobile, o quasi immobile, quindi l'arrivo di qualcosa che andava a mille non poteva travolgerla. MTV, invece, andava a cento, ed è stata uccisa da Internet che andava a mille.
Le generazioni esistono o sono etichette necessarie al marketing?
Esistono. Douglas Coupland ha scritto uno dei migliori ritratti generazionali di sempre, "Generation X", e ha raccontato in alcuni pezzi memorabili quante volte, dopo la pubblicazione di quel libro, si è rifiutato di fare il consulente per multinazionali che volevano coprirlo d’oro per farsi dire da lui come e cosa vendere ai ragazzi.
A te è successo qualcosa di simile?
Nel mio piccolissimo, sì.
Ti sei rifiutato anche tu?
Se si è rifiutato Coupland, figurati io. C’è poi una cosa importante che voglio dire sul marketing e l’ho capita leggendo quello che l'ha intuita prima di tutti, e cioè Luciano Bianciardi: fuori dalla macchina infernale del capitalismo, non c’è vita. E allora non puoi essere un intellettuale arrabbiato. Non puoi essere un intellettuale fuori dagli schemi: tutto ciò che fai verrà comunque usato come strumento di marketing.
A proposito di Bianciardi. Ne “Il lavoro culturale” scrisse che la provincia era il posto migliore per fare lo scrittore e per essere un intellettuale perché "c'è più calma e più tempo ed è un campo di osservazione di prim'ordine". È ancora vero?
Non lo so. Non credo. La grandezza di Bianciardi sta in questo: tutto quello che ha scritto e intuito è sia vero che falso.
Per lui è stato senz’altro vero perché Milano lo fagocitò e lui finì malissimo, morì a 49 anni. Io spero di morire più tardi, perché a Bianciardi non sono degno di allacciare le scarpe e quindi nemmeno di morire alla sua stessa età.
Non manca poco, hai quasi cinquant’anni. Ce l’hai la paura dei 50?
Che bel ricordo mi hai fatto venire in mente. "Paura dei Cinquanta", il libro di Erica Jong che avevo letto dopo "Paura di volare", che avevo trovato nella libreria di mia zia e rubato perché mi sembrava peccaminoso, con quella copertina con le lebbra enormi.
Ma hai paura della vecchiaia sì o no?
Stai cercando di portarmi su Toti?
Forse.
Non ci casco. La prendo più alla larga. Quando in Inghilterra vinse la Brexit e venne fuori che a votare per far uscire il paese dall'Unione Europea erano stati soprattutto gli anziani, mi permisi di scrivere su Twitter che se non si può votare prima dei 18 anni, forse allora è il caso di non votare neppure dopo i 70. Mi diedero del nazista. Successe un casino.
Cosa ci è scoppiato in mano con il covid, a parte le età dell'uomo e il fatto che infischiarsene è impossibile?
La solitudine. Non che prima non fossimo soli, ma adesso siamo persino isolati e nessun governo si occupa delle conseguenze psicologiche che questo comporta. Lo trovo gravissimo, ma fa parte della nostra cultura, proprio come quel tweet di Toti su gli anziani improduttivi e per questo sacrificabili. Pensiamo in termini quantitativi e mai qualitativi: per questo il benessere per noi è esclusivamente fisico e mai mentale. Per contro, la salute psicofisica è fortemente medicalizzata e questo accade almeno dagli anni Cinquanta, quando alle casalinghe americane veniva somministrato il Lorazepam, di modo che fossero sempre contente. Ora come allora, i farmaci sono una scorciatoia per non pensare all'individuo. In nessun modo la nostra società ci spinge a conoscerci, a indagare cosa desideriamo: ci esorta a soddisfare dei bisogni senza comprendere se sono nostri o indotti. L'idea di prendersi cura di sè indagandosi e facendosi aiutare, in questa indagine, da un dottore, che sia uno psicologo, uno psicoterapeuta o uno psicanalista, per la maggior parte di noi è uno stigma. I social network sono una specie di psicofarmaco, siamo dipendenti dai like come le casalinghe americane erano dipendenti dal Lorazepam: non ho mai pensato che la rivoluzione digitale abbia rappresentato una rottura con il mondo di prima, anzi. Credo che quello che viviamo adesso sia il continuum perfetto del boom economico.
La pandemia è servita a qualcosa?
Questa è una risposta pericolosa, rischia di intrappolarmi nella fallacia del controargomento.
Cioè?
Sai quando dici che sei contro la pena di morte e ti rispondono che se avessero ammazzato tuo figlio o tua madre, non lo saresti? Guardiamolo da lontano, questo virus, guardiamolo da un libro di storia del Tremila. Nel 2020, in un Occidente che ha una aspettativa di vita altissima e una natalità bassissima e dove per la maggior parte dei governi le pensioni rappresentano un problema di sostenibilità economica, arriva un virus che colpisce mortalmente soprattutto gli anziani. Visto dal Tremila, il covid sembrerà una specie di acceleratore evolutivo.
Sbaglia chi lo vede come una conseguenza del rapporto sbilanciato e predatorio degli uomini con l'ambiente?
No, il fattore ambientale esiste ma non è l'unico, o meglio: non ha soltanto questa declinazione.
L’umanità è peggiorata? Ci siamo instupiditi?
Ma stai scherzando? Forse guardi troppi talk show. Invece di leggere Twitter dovremmo tutti guardare cosa fanno gli astrofisici: avremmo una misura più complessa e veritiera di quello che gli esseri umani fanno e hanno imparato a fare. Prima del 1975 in questo paese non si poteva divorziare, secoli fa le donne venivano bruciate sul rogo. Il fatto che oggi molta gente scriva idiozie su Facebook e ritenga che i vaccini fanno male, non impedisce a Paul Thomas Anderson di fare film incredibili e a Don De Lillo di scrivere romanzi eccezionali, che l'umanità di domani studierà come capolavori del nostro tempo, con lo stesso stupore che proviamo noi oggi leggendo Sartre. Sono un progressista critico, penso che viviamo nel migliore dei mondi possibili e abbiamo i mezzi per poterlo analizzare e criticare. Quella critica però non può risolversi nella nostalgia del bel tempo andato: non è mai esistito il bel tempo andato, noi idealizziamo tutto quello che non abbiamo vissuto come idealizziamo i posti che non abbiamo mai visto. Quando un dispositivo critico sulla contemporaneità diventa un dispositivo fideistico, smette di avere senso: per questo criticare il tempo presente non deve significare voler tornare al passato, farsene abbagliare.
Sei credente?
No. Non ci riesco, sarebbe troppo facile. Il pensiero della nostra irrilevanza e dell'assenza di senso mi terrorizza, ma non per questo mi accontento di credere che faccio parte di un disegno divino e che in quel disegno sta il significato della mia vita. Capisco l'importanza sociale di Dio: è una risposta che abbiamo costruito per rimediare al vuoto e all'orrore che esso emana. Un vuoto dal quale, però, in fondo, siamo trafitti tutti, credenti e non credenti. L'unica volta in cui ho pensato che la vita umana non fosse un accidente è stato quando ho visto nascere mio figlio. In quel momento ho capito perché le donne sono superiori agli uomini.
Non sei femminista, vero?
Certo che no. Sono un maschio, non posso. Siamo tutti ingranaggi dell'umanità, ma al suo interno ci sono le persone che danno la vita e quelle che non la danno. Le donne la danno e questo le connette con il senso della vita in modo assoluto, diretto, imparagonabile a qualsiasi altra cosa che gli uomini possono sperimentare. Non conta che poi un figlio lo facciano oppure no: conta che hanno quella possibilità, ed è qualcosa che dà loro una forza e una curiosità imparagonabili a qualsiasi tratto maschile. Vedo tutti i giorni che hanno una marcia in più, un'intelligenza sociale e relazionale congenita, una progettualità sempre attiva e presente. Me ne accorgo in ogni tipo di situazione. Anche a Temptation Island le donne sono diverse, accorte, realmente interessate a scoprire chi sia l'uomo che amano. I maschi invece sono meccanismi idraulici.
Lo sei anche tu, un meccanismo idraulico?
Assolutamente.
Dicono che il genere sessuale sia un costrutto socioculturale. Ti convince?
Non lo so. Però, in fondo: cosa non è costrutto socioculturale? Tutto credo lo sia. Tutto, a parte le leggi della fisica.
Però se tutto è costruzione, significa che tutto è correggibile.
Ed è così. Da un punto di vista strettamente filosofico, chi immagina che ci sia altro al di là della matematica e della fisica, che non sia soggetto a modifiche e dinamiche evolutive, è un credente.
Lo dici come se fosse un male.
Non lo è, ma ripeto: per me è troppo semplice.
Capisco. Meglio struggersi andando a correre all'alba ascoltando i Roxy Music.
Giuro che non l'ho mai fatto.
E meno male.
Che padre sei?
Il migliore del mondo, naturalmente. Sto scherzando, non lo scrivere.
Non ti preoccupare. Che musica ascolti?
La playlist condivisa su Spotify con la mia ragazza, Midori: sono un romantico. Con lei condivido molte cose, quest'anno siamo riusciti anche a lavorare insieme. Durante il lockdown abbiamo ideato una linea di abbigliamento, la MaMi: produciamo magliette che raccontano storie, mondi. Una delle mie preferite è quella su Proust.
Di Proust?
No no: su Proust.
Fallire ti spaventa?
Fallire ancora, fallire meglio, diceva Samuel Beckett.
Quando la tua casa editrice ha chiuso, cosa ti sei rimproverato?
La megalomania. Avrei dovuto chiudere prima di arrivare al disastro, ma era sempre filato tutto liscio e avevamo sempre lavorato così bene che ero certo che ci saremmo ripresi. Pensavo: siamo troppi fichi per chiudere. E invece. L'epilogo è stato doloroso, ma non cancella dieci anni meravigliosi. Tutti gli assunti erano entrati con lo stage, alcuni di loro là dentro si sono innamorati e sposati, eravamo una splendida squadra e abbiamo pubblicato libri bellissimi ed esordi che poi hanno avuto un enorme successo. Ne sono orgoglioso.
C'erano state molte polemiche per pagamenti mai arrivati ad alcuni traduttori.
Era successo alla fine, purtroppo, e gli autori che non eravamo riusciti a pagare erano comunque una minoranza. Mi era dispiaciuto perché quelle lettere avevano dato un'idea sbagliata della casa editrice, dove il rispetto per i lavoratori era invece sempre stato un punto di forza, contratti e bonus alla mano.
Pensi di essere bello?
Non ho mai avuto bisogno di domandarmelo.
E fortunato?
Eccome. Ho incontrato persone straordinarie e con loro ho fatto cose bellissime.
Facciamo finta che devi chiudere un incontro con gli studenti in una scuola superiore. Che cosa dici?
Cari ragazzi, ricordatevi di non bere la grappa gialla: fa malissimo.