Assassinio in Argentina
"Morte di un benzinaio di provincia". Un giallo sulla "Guerra sporca" ai tempi della dittatura
Un caso di cronaca che sembra insignificante, un cronista di nera che ricostruisce una storia più grande con cui il paese non ha ancora la forza di fare i conti. Il romanzo di Alver Metalli racconta con dolore anche l'Argentina di oggi
Il benzinaio era oltre la cinquantina, un presente scalcagnato e un passato fatto di quasi niente. L’uomo che gli aveva sparato, un pomeriggio qualunque, lì nella stazione di servizio con l’asfalto così polveroso che si era subito bevuto le tracce di sangue, era di quindici anni più vecchio, ex militare di basso grado da tempo ritiratosi in una vita opaca e periferica quanto quella di prima. Poi era scappato a piedi, i killer dei racket di periferia di solito non fanno agguati a piedi, e un’auto l’aveva travolto sulla strada. Il caso, il destino. Niente indizi. Una storia senza storia, una brutta noia persino per un giornalista di cronaca nera, da riempire di dettagli insignificanti. Un cronista della Mañana di Buenos Aires, finito alla nera quasi come un castigo, l’ultima stanza prima di farsi cacciare del tutto: quando al capo non piaci e la pensione è lontana, e la vita è più stropicciata delle strade intasate della grande città. Inizia così, con la malinconia di un hard boiled e gli odori di chiuso degli uffici e di scappamento delle vie dell’Argentina di oggi: un posto qualunque sulla grande mappa globale, dove in fondo tutto è periferia e il centro nessuno sa dove sia. Non un posto qualunque, invece, per Alver Metalli, che vicino al municipio di León Suárez ora ci vive. Anzi un po’ più in là, dove iniziano le villas. Alver Metalli che è italiano, anzi di Rimini, e dopo aver girato da inviato il Sudamerica, e continuando a fare il giornalista e anche lo scrittore, oggi vive in una “villa miseria”, quelle care al Papa Francesco, e aiuta a mandare avanti la parrocchia del suo amico Padre Pepe. Ha scritto anche un libro-testimonianza, qualche mese fa, sulla pandemia vissuta lì, in uno dei luoghi di cui meno si parla ma più massacrati dal Covid: Cuarentena. Diario dalla peste in una bidonville argentina (San Paolo). Questa volta Metalli ha scritto una detective story, anche se al posto di un Marlow c’è il riluttante cronista di nera Pedro Duran. Un racconto pieno di dettagli veri e di sapori amari, che capitolo dopo capitolo si rivela non scelto a caso dalle cronache, non una storia come un’altra. Con i tempi giusti e gli ingranaggi a posto, mescolando il presente a una storia tragica – così nota ormai, ma ancora così impossibile a essere detta, per gli argentini.
Tirami fuori un bel longform per l’edizione della domenica, gli ordina il capo. Taccuino suole cellulare e le solite ambigue mezze fonti della polizia, e ogni incontro apre a una storia diversa. A una prospettiva inattesa. A mondi dolorosi e a silenzi protetti per anni, dove nessuno è soltanto vittima, nessuno soltanto colpevole. L’Argentina è un posto che non amiamo conoscere, noi nel nord del pianeta. Al massimo un Papa, al massimo l’eterno Perón. La faccia triste dell’America che a guardarla bene rischierebbe di assomigliare troppo a noi, al nostro passato, compresi gli impresentabili “che però hanno fatto anche cose buone”. Meglio lasciare stare. Ma qui la storia ha lasciato cicatrici che ancora non si riescono a mostrare. Dopo quarant’anni dalla dittatura militare, dai centri di detenzione clandestini, dai montoneros e dai desaparecidos, dal processo (e dalla grazia avventata e poi cancellata) di Jorge Videla. E a otto anni, ancora, dalla nuova condanna del Generale per il “furto dei neonati”, i figli degli oppositori inghiottiti nel nulla. Un indizio dopo l’altro, un sospetto crescente che le minacce e le reti del silenzio esistono ancora, il cronista Duran mette insieme i fili. Perché un militare in pensione, uscito pulito dagli anni della Guerra sporca, uccide un uomo che non conosceva e che in quegli anni era all’università, forse era un montonero ma disarmato, e sparito in fretta dalla militanza? La storia di Morte di un benzinaio di provincia (Edizioni San Paolo, 288 pp., 18 euro) è anche una storia più grande, come in ogni buon giallo a qualsiasi latitudine sia ambientato. Ma il suo intrigo, il mistero che non vuole svelarsi, non è dato dalle luciferine sottigliezze dei personaggi, da complicati colpi di scena. A rendere difficile l’inchiesta e opaca la via della verità, polverosa come un viaggio in autobus a Santa Fe, sempre provincia, è il silenzio degli uomini e delle donne, le pietre sul cuore e la patina di oblio stesa sul passato. La grande rimozione dell’Argentina che ancora la condanna a essere così instabile, così sospettosa di se stessa.
Pedro Duran e Alver Metalli si assomigliano. Non solo per professione. Il cronista ha un pudore naturale a mettere le mani in quegli intrecci dolorosi, a farne uno scempio di carta. Alla fine l’articolo scritto non lo consegnerà. Metalli ha qualcosa più di un pudore, è come se per lui i personaggi fossero persone vere. Tragedie vere, destini veri. Che bisogna entrarci, prima di giudicare. E’ quel che gli interessa. Sa che le storie piccole e la grande storia sono impastate della stessa realtà, del male degli uomini, del tradimento o del coraggio. Fatte dell’amore di figli e padri e madri. Dell’odio. L’Argentina non fa eccezione, il male della politica è lo stesso degli individui, ognuno la sua strada e la sua responsabilità.