“La la Lambro”
L’appello all’Unesco di Maurizio Milani per proteggere via Montenapoleone e i padri costituenti del cabaret
L’Innamorato Fisso – ma le avete guardate bene, le pantofole che gli aveva disegnato Vincino? Poi si fa l’abitudine e si finisce per non notarle più – è un po’ meno fissamente innamorato. Al momento gli sta a cuore il fiume Lambro. Briga per candidarlo a sito dell’Unesco, con piglio minaccioso. “Altrimenti facciamo i tumulti”, scrive all’inizio di “La La Lambro” (in libreria dal 19 novembre, editore Solferino).
Nel trascrivere la frase ci siamo per un attimo distratti, stavamo per scrivere “scoppiano i tumulti”. Sbagliato, perché in quel “facciamo i tumulti” (e in centinaia di altri giri di frase, nel libro come nella rubrica, mai che si distragga un attimo) sta la bravura dello scrittore. Raccontare Maurizio Milani ai lettori del Foglio va ben oltre le “affettuosità giornalistiche”, stiamo sfiorando le incestuosità giornalistiche.
Fa da allenamento per la prefazione del Meridiano che prima o poi bisognerà scrivere, per fare un po’ di giustizia in questo mondo letterario. Il paese è ancora imbambolato in adorazione dei vincitori di premi Strega. Ma noi abbiamo pazienza, l’occasione ci troverà preparati.
Il Lambro ha un suo bel dossier, ricco di flora, fauna e uomini in preda a “snudamenti d’amore”, quando le morose li lasciano. C’è lo storione nano (prelibato) e la pavoncella nana, seduttrice che “fa l’oca e ha scaldato la testa a un castoro”. I non milanesi lo godranno un po’ meno, non conoscendo il fiume che proprio leggiadro non è, e al naso dei più risulta anche un pochino maleodorante. All’Unesco nicchiano, temono che ammesso il Lambro poi arrivi “la candidatura della Palude dei Caimani di Laredo, fogna di secondo livello”. Il “percettore di Reddito di cittadinanza” (ecco perché ha il buon tempo) insiste, vantando l’unica damigiana di pessimo vino prodotta da quelle parti. Ricorda i progetti architettonici: il fiume ghiacciato come via di comunicazione, o il Lambro “deviato per farlo passare da via Montenapoleone, era una vecchia idea dei padri costituenti”.
Provate voi a mettere insieme Montenapoleone e i padri costituenti, senza dar l’impressione che le parole siano sparse a caso (o meglio, non provate; c’è stato un periodo in cui arrivavano illeggibili composizioni, accompagnate dal bigliettino “credo che sarà interessata a queste mie prose, scritte nello stile di Maurizio Milani”, speriamo non ricomincino). O a immaginare i pali di Venezia minacciati dal tarlo asiatico, fortuna che grandi navi lo spaventano e la città resta su. E’ tutto prima del coronavirus, naturalmente; ma ormai non c’è nulla, tra le cose lette e viste, che non provenga dal mondo prima del coronavirus.
Lanciatissimo, il beneficato dal Reddito di cittadinanza va a illustrare i dialetti del Lambro e i tavoli da osteria, la miniera di tanzanite e le baleniere sulla Darsena. Poi passa ai parchi: “Anche per loro vale un tumulto”. Parco delle Cave e Parco delle Groane, dove si produce il fernet alle ghiande, poco lontano in una baracca vivono i fratelli Karamazov e c’è un Cirque du Soleil abusivo. Poche cose al mondo, pop e non pop, sfuggono alla prodigiosa macchina narrante dell’Innamorato Fisso. Non c’è angolo di Milano che resti impunito. Senza dimenticare i padri costituenti, stavolta del cabaret.
Viene raccomandato ai signori dell’Unesco anche lo strepitoso Walter Valdi, subito respinto per “canzone razzista con finale omofobo”. In quel momento abbiamo ricordato quanto erano divertenti “al paese dei Vacaputanga” (tutto su YouTube, a portata d’orecchio) e “Vademecum tango”: una canzone intera con quel che si ricorda – si ricordava, è roba di oltre mezzo secolo fa – del latino scolastico.