Pur venendo da una famiglia tutt’altro che benestante, sono stato un bambino privilegiato. Ho avuto la fortuna di crescere nell’Emilia degli anni 80, cioè nel piccolo impero asburgico del Pci, che al suo crepuscolo attutiva ancora le dure realtà a cui ho dovuto arrendermi da adulto. Passare i pomeriggi nelle biblioteche dell’hinterland bolognese, specie se si aveva una mamma addetta al servizio, consentiva allora d’incontrare facilmente i testi o perfino gli autori di quella letteratura per ragazzi alla quale le istituzioni assegnavano un ruolo importante nello “sviluppo civile e democratico”, per dirla con un’espressione retorica che però rifletteva almeno in parte i pregi di un’oasi socialdemocratica truccata da avamposto comunista. Grazie all’ultima spinta propulsiva del progetto nazionalpopolare, lì ho potuto discutere con Piumini del suo “Stralisco”, far leggere i miei primi racconti a Carla Poesio, e scrivere o disegnare sul giornale di Mario Lodi. Ma su tutti aleggiava il nome di un altro scrittore, quello delle filastrocche che mi riempivano la testa con i simboli di un mondo mai visto, e a cui pure dovevo l’esistenza: l’Italia sospesa tra antichi mestieri e commessi viaggiatori, tra una fame atavica e lo spazio di Gagarin… Ma Gianni Rodari non potevo incontrarlo, perché come avevo letto sulla quarta di un suo libro era “scomparso”: parola che prendevo alla lettera, sperando che prima o poi ricomparisse in una delle nostre aule polivalenti, di fronte a un cippo resistenziale, in una piazza dedicata a Gramsci, Allende o Guido Rossa.
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