Il re nel suo cono d'ombra
Epopea e destino di Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica. Pesano i suoi ultimi silenzi sulla linea del giornale
“Il était journaliste et avait des démangeaisons d’écrivain”.
Sony Labou Tansi “La vie et demie”
Oliviero! Sei l’unico che in questa stanza continua a darmi del lei”.
“Direttore, perché vuole togliermi questo privilegio?”.
Oliviero è Oliviero Beha, uno dei giornalisti più estrosi e ingovernabili della sua generazione (1949-2017) e il direttore tenuto a bada con tanta ironia è Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano la Repubblica nel 1976.
La scena è del 1977. Scalfari e Beha si fronteggiavano, l’uno dietro la sua scrivania e l’altro in piedi contro la parete, alle due estremità dello stanzone oblungo su Piazza Indipendenza dove Scalfari orchestrò negli ultimi anni Settanta la nascita, il decollo e il successo di un’avventura editoriale chiamata la Repubblica.
Era uno stanzone polivalente l’ufficio di Scalfari, che diventava ogni giorno alle 11 uno spazio scenico, gremito di redattori d’ogni grado, dove il direttore-editore – per tutti solo “Eugenio” – istruiva, scandagliava e galvanizzava le truppe. Uno show quotidiano per esperimentare la sua personale ricetta di quotidiano nazionale basata su quattro ingredienti: il carisma del capo, fiducia cieca nella fortuna e due slogan-metafora su cui torneremo, la Nave Pirata e il Cono d’Ombra.
Chi ha conosciuto lo Scalfari-sciamano di allora, di fronte al suo uditorio preferito, la sessantina di pionieri insieme ai quali aveva messo in acqua un’incerta navicella di carta, ha letto incredulo sulla Repubblica del 25 ottobre scorso l’editoriale della domenica in cui Maurizio Molinari, quinto direttore del quotidiano dallo scorso aprile, annunciava ai suoi lettori che stavano sfogliando un giornale “per la prima volta dalla fondazione frutto di lavoro giornalistico condotto in remoto, grazie alle nuove tecnologie”.
A qualcuno è sembrato di vederlo Molinari, nella penombra di un ufficio deserto, soddisfatto dell’exploit “da remoto” (non tutti i lockdown vengono per nuocere), agli antipodi del Fondatore: tanto quello, il Fondatore, si sforzava di essere diretto, ieratico e flamboyant, quanto questo suo successore si mostra misurato, elusivo, solitario. Ma questa è un’altra storia.
Qui si racconta dello Scalfari dei primordi che vinse tutte le sue battaglie, del capitano di ventura che in quattro anni portò la tiratura di Repubblica da zero a 200 mila copie ridisegnando (in parallelo con Il Giornale Nuovo creato da Indro Montanelli a Milano nel 1974) il panorama della grande stampa quotidiana d’Italia.
Torniamo ai quattro ingredienti della ricetta.
Il carisma per cominciare: quella predisposizione naturale che la Treccani parafrasando Max Weber, definisce “il complesso delle facoltà e dei poteri straordinari che una persona possiede e che le vengono riconosciuti all’interno di un gruppo, consentendole l’assunzione di un ruolo straordinario”. A controprova del talento di Scalfari sta il fatto che come tutti i condottieri anche lui suscita sentimenti estremi: lo si ama o lo si detesta.
Accanto al carisma, la buona sorte. Un genere speciale di buona sorte, quella che gli arabi chiamano barakà e scende dal cielo come una predestinazione. Un “favore degli dei” in virtù del quale in quei primi anni dell’avventura scalfariana l’attualità politica nazionale fu dominata da temi e avvenimenti – gli Anni di piombo, il Movimento del ’77, il sequestro e il supplizio di Aldo Moro, l’antagonismo fra il Pci di Berlinguer e il Psi di Craxi – vissuti con passione da tutte le sfumature della sinistra italiana, nelle quali sfumature maggioritariamente si specchiavano sia i redattori scelti da Scalfari sia i lettori che sempre più numerosi sceglievano Repubblica come primo giornale.
E un giorno arrivò dal cielo anche lo scandalo di Licio Gelli e della loggia massonica P2, la grande tragicommedia italica che nei primi Ottanta provocò, fra le altre cose, un temporaneo azzoppamento del gruppo Rizzoli Rcs tanto funesto per il Corriere della Sera quanto provvidenziale per Repubblica e per la sua diffusione nel nord Italia. Barakà allo stato puro.
Il favore degli dèi rinsaldò lo spirito di corpo a bordo della “nave corsara” immaginata da Scalfari, un giornale-goletta agile e veloce, concepito per sorprendere i maggiori bastimenti editoriali, abbordarli e saccheggiare quanto più possibile il loro carico di lettori, buone firme e introiti pubblicitari.
A questa metafora marinara faceva da pendant l’altra, detta del “Cono d’Ombra ”, a designare il “nulla” cui il Sommo Sacerdote di Piazza Indipendenza votava con tono oracolare chiunque fosse tentato dall’idea di abbandonare la comunità combattente: “Chi lascia questa nave finirà irrimediabilmente nel cono d’ombra”. E non gli dispiaceva se qualcuno, latineggiando, gli faceva eco con un Extra Ecclesiam nulla salus. Al contrario. E un giorno l’erudito di turno ebbe modo di menzionare i due uomini di chiesa cui quel motto doveva la sua fama: il teologo nordafricano che l’aveva coniato, San Cipriano da Cartagine (205-258 d.C.); e il Papa che lo aveva rilanciato mille anni più tardi con la bolla Unam Sanctam, Bonifacio VIII Caetani (1235-1303), assegnato alla bolgia dei simoniaci nell’Inferno di Dante.
A dispetto del suo carisma Scalfari subì l’onta di una “diserzione di gruppo” agli inizi dal 1979, quando il suo vicedirettore per l’economia Mario Pirani, avendo ricevuto dalla Rizzoli l’incarico di rifondare il glorioso rotocalco L’Europeo trapiantandolo a Roma, lasciò Piazza Indipendenza portandosi via una dozzina di redattori. Scalfari reagì al blitz fulmineamente, facendo ricorso a tutte le sue armi – a cominciare dal libretto degli assegni – e in un paio di settimane riuscì a riportare all’ovile dieci dei dodici transfughi (il più astuto dei quali, Paolo Guzzanti, inscenò una seconda fuga e ottenne un secondo premio di reingaggio).
Farà anche di meglio il Sommo Sacerdote: complice il naufragio precoce del nuovo Europeo di Pirani nel dicembre dello stesso ’79, dopo qualche tempo riporterà a casa lo stesso Pirani, trasformando il capo degli evasi in figliol prodigo.
A Mario Pirani, capo del servizio economia a Roma, e al suo omologo milanese Peppino Turani (coautore con Scalfari del famoso pamphlet “Razza Padrona” uscito nel ’74) il Fondatore riconosceva una certa autonomia, mentre teneva gelosamente per sé il timone della politica interna. Generoso nel concedere spazio e visibilità a chiunque li meritasse, era altrettanto imperioso nell’affidare e ritirare gli incarichi – servizi, commenti, interviste, ritratti – alla giornata, seguendo un suo spartito musicale mutevole, discusso in continuazione con gli altri ma definito in splendida solitudine. Teneva anche a controllare di persona i principali titoli di ciascuna pagina, per essere sicuro, diceva, che “cantassero”. La Repubblica dei primi tempi era d’altra parte – con sei numeri a settimana, niente sport, pagine locali né supplementi – un “reggimento leggero” di cui il direttore conosceva ogni recluta.
Di una delega di poteri senza riserve godevano due luogotenenti che Scalfari considerò fin dall’inizio compartecipi del suo successo – Rosellina Balbi e Orazio Gavioli, responsabili rispettivamente della cultura e degli spettacoli.
Speciali poteri vicereali erano attribuiti a Sandro Viola, amico e sodale del Fondatore nonché creatore (insieme a Giorgio Signorini, uno dei preziosi ‘colonnelli’ reclutati presso lo stato maggiore di Paese Sera) del servizio esteri più ambizioso, organizzato e attrezzato mai visto in Italia.
E Viola (1931-2012), libero di alternare reportage e lavoro redazionale e di sconfinare nelle pagine di interni, cultura, viaggi e costume, ripagò Scalfari riservando a Repubblica la sua firma e il suo talento di scrittore, respingendo offerte periodiche di pubblicare libri, più o meno instant. Fu ripagato anche lui, quando Scalfari gli “regalò” nel ’77, come corrispondente da Parigi – strappandolo al Corriere – il suo amico e gemello professionale Bernardo Valli, classe 1930. Viola e Valli, due maestri del reportage moderno, post-terzapagina, che hanno raccontato il mondo intero armati di dubbi e buone letture, dando voce a tutti gli attori di tutti i conflitti, vincitori e vinti, oppressori e oppressi.
Alla fiducia cieca per Viola si sommava un sostanziale disinteresse di Scalfari per gli affari internazionali e in particolare per gli ‘specialisti’ di questa o quell’area geografica. La prima volta che alla riunione delle 11 sentì un redattore degli esteri parlare, a proposito del Sahara occidentale spagnolo in via di decolonizzazione, del “Fronte polisario”, il Fondatore alzò uno sguardo perplesso al soffitto e fece : “Per questo... Polisario... espanso basterà un colonnino, no?”. E per qualche giorno ripeté compiaciuto il suo calembour.
Nell’autunno del 1978, quando divampò in Iran l’insurrezione dei mostazafin, il proleteriato urbano, contro la tirannia filo-occidentale dello scià Reza Pahlavi, Scalfari non esitò a seguire i consigli di Viola e Signorini e per raccontare la “rivoluzione islamica” Repubblica mantenne uno spazio fisso in prima pagina e una camera prenotata al Park Hotel di Teheran per Bernardo Valli per sei mesi. Fino alla primavera del 1979, quando lo scià abbandonò il trono e dal suo esilio francese ritornò trionfalmente l’ayatollah Ruhollah Khomeini, Guida suprema dell’islam sciita e architetto della dittatura teocratica e repubblicana tuttora al potere.
Lungo tutto l’arco della crisi iraniana Scalfari intervenne personalmente solo una volta, quando complimentò per telegramma il secondo inviato del giornale che dava periodicamente il cambio a Valli ed era riuscito a procurarsi uno scoop tutto italiano: il coinvolgimento della società Iri Condotte d’Acqua, saldamente ammanigliata alla corte imperiale persiana, nello scandalo edilizio “Mahestan”, dal nome di un quartiere di Teheran sviluppato alla maniera dei palazzinari romani. A Scalfari quello scoop regalava una doppia soddisfazione: un colpo giornalistico che scosse l’Iri e costrinse alle dimissioni l’amministratore delegato di Condotte Loris Corbi, e insieme l’occasione per dare una lezione di mestiere alla dirigenza dell’Espresso, dove qualcuno viveva male il rapido successo del quotidiano scalfariano “nato da una costola di via Po”.
Per ironia del destino il reporter di Repubblica autore dello scoop (e di queste righe) non aveva meriti speciali, avendo ricevuto l’intero dossier Mahestan pronto per l’uso dall’inviato dell’Espresso Giancesare Flesca, suo buon amico e vicino di camera al Park Hotel. Flesca aveva tempestivamente offerto il servizio ai suoi capi di Via Po, ma questi avevano giudicato “senza interesse” la stessa storia che Scalfari e Pirani spararono a vista in prima pagina e tennero a lungo in evidenza.
Repubblica non ha più nulla della “goletta corsara” già da qualche decennio. Ha fatto in tempo a diventare galeone, vascello, transatlantico e infine nave ammiraglia di un’intera flotta, esposta alle scorrerie cartacee e virtuali dei nuovi corsari del giornalismo.
Quanto al corsaro e poi ammiraglio Eugenio Scalfari, ha abbandonato prima il timone e poi la plancia di comando, lasciandosi discretamente scivolare nel suo famoso Cono d’Ombra, dove riflette e scrive sulle sorti sue personali e dell’universo. Dal Fondatore Repubblica riceve ormai un componimento a settimana, l’editoriale della domenica, cui Molinari rispettosamente cede in prima pagina il posto d’onore, accontentandosi della finestra sottostante.
Prese le distanze dall’attualità terrena, il Fondatore è rimasto silenzioso di fronte ai primi malumori redazionali suscitati dal suo ultimo successore, in particolare quello riguardante un nuovo approccio di Repubblica al conflitto mediorientale, riassumibile nella scommessa secca di Molinari sulla “Pax Trumpiana” prefigurata dagli “Accordi di Abramo”, il pacchetto di patti politico-commerciali con cui la coppia Trump-Netanhyahu ha ottenuto da alcune dinastie sunnite del Golfo la normalizzazione dei rapporti con Israele. Tanto secca è la scommessa di Molinari, da averlo indotto a censurare un passo giudicato fuori linea in un articolo mediorientale di Bernardo Valli. Il quale Valli ha ritirato l’articolo intero e ha abbandonato le pagine di Repubblica. Ma anche di fronte alla bacchettata subita dal compagno d’armi più anziano e decorato del suo antico Reggimento, Scalfari ha preferito tacere.