A vent’anni stavo con una ragazza che studiava Paul Celan. Di lui allora conoscevo appena i dati biografici più eclatanti (genitori scomparsi in un lager, suicidio nella Senna) e due poesie famose: la “Todesfuge”, dove i forni crematori sono tombe scavate nell’aria e la morte è “un maestro di Germania”, e il “Salmo”, una specie di anti-Genesi che abbozza un’atroce parodia di preghiera cristiana lodando un Dio chiamato “Nessuno”. In quel periodo cominciai a leggerlo sul serio. Il tedesco era diventato un lessico di coppia, così cercavo di decifrare i testi originali. Mi aiutava l’insistenza del poeta su alcuni dettagli: mandorle, bocche, capelli (ma Haar ha un senso più ampio), rose, ceneri, respiri, e soprattutto pietre e nevi, cioè i sepolcri anonimi delle masse cancellate dallo sterminio. Quei vocaboli mi facevano pensare a fossili incastrati nella pagina, irrelati e statici - finché di colpo non li scuoteva arbitrariamente un verbo come werfen, “gettare”. A ogni scena attribuivo lo sfondo della Shoah, anche quando il buio e l’immobilità dei corpi alludevano forse a un amplesso. Sottolineavo le sentenze più terribili. “Nessuno / testimonia per il / testimone” conclude Celan in una lirica della maturità. In “Dinanzi a una candela” sembra presentare alla madre scomparsa una sposa che è “del tuo esser morta, / la figlia”. “La morte, / che ancora mi dovevi, io / la porto / a termine” dice un altro passo che mi torna in mente con la lapidaria Amelia Rosselli di “E’ vostra la vita che ho perso”.
Abbonati per continuare a leggere
Sei già abbonato? Accedi Resta informato ovunque ti trovi grazie alla nostra offerta digitale
Le inchieste, gli editoriali, le newsletter. I grandi temi di attualità sui dispositivi che preferisci, approfondimenti quotidiani dall’Italia e dal Mondo
Il foglio web a € 8,00 per un mese Scopri tutte le soluzioni
OPPURE