Il caso Laura Boldrini vs il direttore di Huffington Post Mattia Feltri, che a miglior titolo andrebbe rubricato Boldrini vs libertà di stampa, va riassunto in breve. Boldrini ha un blog su HuffPost. Invia un testo, in cui incidentalmente fa un “apprezzamento spiacevole” contro Vittorio Feltri, incidentalmente padre del direttore, accostandolo a termini come “sessismo” e “misoginia”. Il direttore di HuffPost, nel pieno delle sue responsabilità – dunque anche, secondo le leggi sulla stampa, di pubblicare o meno un testo, compresi quelli di collaboratori o blogger “ospiti” – chiede di modificare. Cosa che peraltro può fare per qualsiasi articolo, ovviamente. Boldrini rifiuta e, quale eleganza, minaccia in caso di non pubblicazione di spiattellare “la censura” subita su Facebook. Di fronte a quello che suona un ricatto, Feltri non pubblica. E al post su Fb della “censurata”, risponde sulla homepage del suo giornale.
Segue sviluppo molto chiassoso e poco intelligente: una quantità di giornalisti (per limitarsi alla professione) che pure la legge e le regole dovrebbero conoscere, ha solidarizzato con Boldrini e accusato Mattia Feltri di censura. Ritenendo tutti, evidentemente, che la responsabilità di cosa pubblicare su una testata giornalistica sia dei collaboratori. Perché non tornare all’assemblearismo? Altre dozzine di cervelli da tastiera ma senza tesserino hanno parlato di casta e familismo, ma de minimis. Al netto di questa epifania di ignoranza democratica e delle regole, ci sono due cose serie e gravi che il caso Boldrini vs libertà di stampa fa emergere. Il primo è l’atteggiamento dell’Ordine dei giornalisti; il secondo riguarda un tema più ampio, la minaccia alla libertà di stampa – un po’ pomposamente diremmo quindi alla democrazia – costituita da una nuova forma totalitaria: la censura da parte di una “opinione diffusa” o popolare, non per forza maggioritaria, contro chiunque esprima idee e posizioni differenti.
Prima l’Ordine. Nella persona del presidente Carlo Verna, e la cosa è più grave. Il quale ha rilasciato all’Ansa una dichiarazione di censura a Feltri, senza neppure essersi informato con l’interessato: “Lascia basiti la notizia della censura… I princìpi della libertà di stampa sono sacri in Italia, in Europa e in tutto il mondo democratico”. Una condanna in contumacia da parte del presidente dell’Ordine, senza nemmeno avere aperto una formale istruttoria. Ma, se anche ora venisse aperta, come potrebbe Feltri sentirsi garantito da un tribunale che ha già firmato la condanna? Bel guaio. Questo a parte, la notizia è che persino il presidente dell’Ordine dei giornalisti ritiene che a decidere in un giornale siano i collaboratori. Molto bene. Conclude, Verna: “Ci aspettiamo che la questione trovi valide spiegazioni che al momento ci sfuggono”.
Gliele forniamo noi (punto due), pur dubitando che il presidente le sappia cogliere. A giugno il direttore delle prestigiose Opinion del New York Times, James Bennet, si è dimesso dopo una campagna di delegittimazione – della redazione e della sinistra radical americana, per aver deciso di pubblicare (stava lì apposta, a decidere) un articolo del senatore repubblicano Tom Cotton. Discutibile, ma non è questo il punto. Il punto è che è in atto ovunque, e noi si arriva buoni ultimi, un sostanziale ribaltamento dei princìpi di libertà e democrazia. E in base a una inedita pratica di “censura del popolo” a decidere chi può parlare è una non meglio identificata, né mai autorizzata, doxa (opinione) culturale. Nel caso di Bennet – ma i casi sono a dozzine all’estero, da destra o da sinistra non importa – o di Feltri si giunge ormai a sovvertire anche il concetto di libertà di stampa, che è parte della libertà di espressione. Quando un direttore viene attaccato per aver fatto semplicemente il suo lavoro, e in modo trasparente, la polizia del pensiero è vicina. Qualcun altro, invece, dovrebbe fare pulizia delle ragnatele nei suoi pensieri, o almeno tra i suoi libri di diritto.
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