L'intervista della domenica
La voce del papone
La radio, gli anni Ottanta, i Novanta, Linus, la generazione Cecchetto, gli 883, le tute, i pigiami, Galeazzi, gli adolescenti, la dad, la techno. Conversazione con Nicola Savino.
Scrivo a Nicola Savino e gli chiedo se gli andrebbe un’intervista. Non risponde: mi chiama. Come fanno i genitori e i nonni (Savino, se legge, mi scusi: non voglio dire che è anziano, ma soltanto che è una cara persona, lo giuro!). Rispondo. Rido subito. Ha quella voce lì, quella che conosciamo tutti prima e meglio della sua faccia, quella della radio di tutti per tutti, e che ha il suono del mondo quando era bello, largo, pieno, ragazzo, festivaliero, ricco&povero. Con quella voce sa fare e pure essere Galeazzi, Berlusconi, Papa Francesco, Rocco Siffredi, Topo Gigio (vi prego, recuperate lo stralcio di Festivalbar2000, quando Fiorello lo fa salire sul palco e gli dice di parlare con Syria e lui lo fa con la voce di Topo Gigio). Con me fa e anzi è Giovanni Benincasa. Io, scema, mi convinco che sia proprio Giovanni Benincasa. Invece è Savino. E mi dice che non ha niente da dire. E gli dico che nessuno ha niente da dire, ma tanto non ci credo, qualcosa ci inventeremo, cose così. Gli dico, Giovanni, per piacere, dica a Savino di pensarci su stanotte e di farmi sapere domani. L’indomani, Savino mi fa sapere. Dice sì e mi dà appuntamento come si fa adesso: al telefono. Ci vediamo alle 17, chiamo io. Va bene.
Chi sia Nicola Savino non ve lo devo né spiegare né raccontare, ma nella remota eventualità che siate molto giovani e inesperti, due coordinate eccole qui. È e fa il conduttore radiofonico, dal 1997 su Radio Deejay in coppia fissa con Linus – una volta ha detto: “Nel caso mio e di Linus, uno più uno fa cinque, non due. Anche Mick Jagger ha fatto cose da solista, ma non belle come con i Rolling Stones”. In tv, presenta Le Iene con Alessia Marcuzzi. È stato autore di Zelig, Le Iene, Festivalbar. Ha condotto Quelli che il calcio, Colorado, L’isola dei famosi, il Dopofestival. Ha recitato in qualche film. Ha inciso un disco. Ha doppiato un bradipo in un cartone animato. E questa è una selezione di grande sintesi.
Una volta ha detto a Vanity Fair che la cosa alla quale non rinuncerebbe mai è accompagnare sua figlia a scuola.
Bei tempi. Adesso si vergogna a farsi vedere in giro con me.
Ha ragione.
No, ha quindici anni.
Età difficile.
Lella Costa una volta mi ha detto che dopo l’adolescenza della prima figlia, pensava che quella delle altre sarebbe stata in discesa e invece no: ogni adolescente ti fa a pezzi daccapo, a modo suo. Per fortuna ho soltanto una figlia.
Matilda. Perché questo nome?
È un omaggio a Natalie Portman in "Léon". Un’idea di mia moglie, naturalmente.
Lei è solo in casa con due donne!
Oggi ho comprato una tuta marrone, ne sono molto fiero. L’ho fatto perché mia moglie cominciava a lamentarsi dei miei pigiami, dei quali sono altrettanto fiero perché sono seri, eleganti, quelli con i bottoni, le righe, quelli che si comprano in negozi assurdi che, su richiesta, ne confezionano di identici per tutti i membri della famiglia, così che mamma, papà e bambini siano tutti in tinta e abbinati. Il passo successivo è la strage familiare.
Per carità. Torniamo alla tuta. Marrone fa pugile e anche un po’ Fabrizio Corona.
E no però, Corona no, ha il cappuccio ma non ci sono nemmeno loghi. No, guardi, sono soddisfatto. Non ne compravo una dal 1991.
E come l’ha passato il primo lockdown, scusi, in pigiama Pierre Cardin?
Mi vestivo ogni giorno al mio meglio, ero persino elegante. Era il mio modo di resistere al disastro.
Ora non vuole più resistere?
Certo che sì, ma con un altro stile. La tuta serve ad avere dignità di fico in casa, diciamo così. Spero che a mia moglie piaccia.
Altrimenti?
Altrimenti niente, l’ho pagata trenta euro, non investo mica alla cieca. Poi ho anche comprato le cose di sempre: tre t-shirt e due mutande di Calvin Klein.
Mi fa piacere. E per Matilda?
Una felpa di Harry Potter.
L’ha scelta lei?
Certo, era con me. Non usciva da quattro giorni. Si rende conto, quattro giorni. Se penso che stiamo tenendo i ragazzi chiusi in casa, in dad e con la vita sospesa, impazzisco. È una vergogna. E quando provo a dirlo o a scriverlo, mi sento rispondere che devo guardare la curva dei contagi. La guardo, naturalmente, ma non è sufficiente a farmi ritenere accettabile che la vita continui, che si siano trovati dei modi per non chiudere tutto, e che i ragazzi si sia semplicemente scelto di tenerli a casa. Io non ho una ricetta, non so come si potrebbe fare, ma so che negli altri paesi europei nessuno ha fatto come sta facendo l’Italia. Noi non vediamo adolescenti per strada da troppo tempo, e loro neanche si lamentano. Mia figlia non si lamenta, e io che sono un papà appiccicoso sono contento di averla sempre a casa con me, ma mi chiedo: che danni avrà tutto questo, quali ripercussioni ci saranno in futuro, a cosa, di immaginabile e di inimmaginabile, stiamo sottoponendo una generazione intera? I bambini piccoli hanno genitori che lavorano e soprattutto votano e che non possono tenerli in casa né lasciarli soli, quindi per loro qualcosa è stato pensato. I ragazzi più grandi, invece, siccome da soli ci possono stare, vengono del tutto abbandonati. E la loro formazione? Le loro relazioni? La loro giovinezza?
Le piacciono molto i ragazzi.
Da mia figlia imparo tantissimo. Sono curioso del suo mondo e, in modo sleale, me lo rigioco. Mi duole usare una parola orribile: mi serve.
In radio?
Certo. Linus è molto più bravo di me e quindi riesce a stare al passo con le novità, oggi mi ha fatto conoscere Masego: io non lo avevo mai sentito e, attenzione, non si tratta di un artista alla posizione 108 della classifica. Si tratta del nuovo Drake. Lavoro in una radio commerciale: per noi tutto ciò che è nuovo è interessante. Lo accogliamo, lo celebriamo, ne siamo ghiotti. Mi domando se abbiamo la di sindrome del nuovismo di cui parlava De Luigi in un vecchio film, quella specie di coazione a ritenere bella e importante una cosa solamente perché è nuova. E mi dico che sì, forse abbiamo un po’ quella malattia. Ma non è male.
Lei dovrebbe essere un maestro, ormai ha l’età per farlo. Per i trentenni è andata, e tutti lamentano questo enorme buco nella loro formazione: l’assenza di qualcuno che li abbia seguiti, allevati, bacchettati. Per i ventenni invece si fa ancora in tempo.
E invece penso che per loro sarebbe più giusto che una guida la trovassero sui mezzi che usano. Io faccio il presentatore: è un mestiere che a nessuno interessa più fare. Nessuno vuole dire “Buonasera, ecco a voi”. Tutti vogliono essere quelli che entrano dopo quella frase. Tutti vogliono viaggiare in prima. Per questo Amadeus, Gerry Scotti, Carlo Conti possono dormire su otto guanciali.
Però la radio i ragazzi la vogliono fare.
Sì? Mosche bianche. Figli di appassionati. Pochissimi, mi creda.
Quest’estate ho conosciuto, a un evento sulla GenZ, un ventenne che sognava di diventare conduttore radiofonico.
Era il nerd della situazione?
Tutt’altro. Bello. Alto. Simpatico. Un po’ cafone. Non sapeva chi fosse Iggy Pop e questo mi aveva scandalizzata.
Male. Aveva ragione lui. I giovani non devono conoscere la musica dei vecchi. Io ho cominciato a sedici anni e non sapevo niente di niente, odiavo i cantautori, mi annoiavano i Beatles. Amavo soltanto la musica elettronica. Si parte sempre da ciò che si ama, il resto viene dopo, s’impara col tempo.
Quindi non era meglio prima?
Non lo dica neanche per scherzo. È meglio adesso. E quando ero ragazzino avevo una sola certezza, e me la ripetevo continuamente: da grande, non diventare uno di quelli che dicono che era meglio prima.
Però ha detto che adesso tutti vogliono viaggiare in prima.
Ma non ho detto se è un bene o un male. Lo vedremo più avanti. È tutto nuovo e diverso, com’è normale che sia.
Ma lei non ha tanta nostalgia degli anni Novanta, quando il mondo era l’arca e noi eravamo Noè?
Degli anni Novanta sono stato un testimone oculare. In quegli anni ho cominciato a essere adulto, a far parte di qualcosa che adesso riconosco e vedo: un piccolo grande gruppo, una stirpe, una rat pack. Fiorello, Amadeus, Albertino, gli 883, Jovanotti, Linus: eravamo tutti figli di Cecchetto. E le assicuro che nessuno di noi pensava che quello che facevamo, in quel momento, sarebbe diventato un culto. Quando facevo il Festivalbar o dormivo in stanza con Mauro Repetto non potevo immaginare che gli 883 sarebbero diventati una leggenda. Ecco, io ero accanto alla leggenda a mia insaputa. E nessuno di noi pensava alla svolta.
E a cosa pensavate?
A divertirci. Certo, ognuno di noi aveva un sogno. Amadeus sognava già Sanremo, me lo ricordo benissimo.
Lei cosa sognava?
Di fare quello che faccio: qualcosa di divertente in radio. Tra i Settanta e gli Ottanta proliferavano radio private che avevano un’attenzione maniacale per la tecnica con cui si mettevano i dischi, per la riproduzione del suono. Io ne andavo pazzo. Presto scoprii anche Radio Popolare: ci lavorano quelli della Gialappa’s, che ancora non si chiamavano così, e facevano una radio molto più parlata e scanzonata, vicina al mio quotidiano. Me ne innamorai immediatamente. E unii i due mondi: le radio impostate, classiche, tecniciste, un po’ polverose della veterosinistra e il mondo nuovo della Gialappa’s.
E poi con la Gialappa’s ha finito con il lavorarci. Wow.
Già, wow. Che soddisfazione. Loro sono il mio Renzo Arbore.
Gli anni Ottanta com’erano?
Incredibili. Cecchetto presentò un Sanremo e non aveva nemmeno trent’anni: oggi sarebbe impensabile. Ricordo il sollievo, la spensieratezza, la giovinezza che trionfava: ci levammo di dosso il grigiore degli anni Settanta, i morti, le stragi, il terrorismo, il cadavere di Aldo Moro (ricordo ancora perfettamente il giorno del ritrovamento: la maestra si mise a piangere, fummo mandati tutti a casa). E ci scoprimmo vincenti, cominciammo in bellezza con l’urlo di Tardelli ai mondiali. Arrivò la musica senza chitarre, una rivoluzione incredibile. Il postpunk fu come internet, un fatto senza precedenti. Ricordo con amore anche il disimpegno, la liberazione sessuale e omosessuale: Tondelli, Boy George, i Culture Club, Frankie goes to Hollywood. Il genere sessuale che diventava irrilevante. E la tv di Berlusconi, che amai subito alla follia.
Io la amo ancora.
Ma sa che io registro tutte le notti un programma che va in onda su Retequattro, “Ieri e oggi in tv” di Paolo Piccioli, e fa rivedere tutto quello che è stato trasmesso dal 1980 sui canali Mediaset? Ho archiviato sessanta puntate. Per me batte Techetè, mi dispiace che sia nascosto tra le pieghe del palinsesto notturno, lo trovo splendido, geniale.
Poi dice che non era meglio prima.
Non lo era, si fidi di un papà.
Si ricorda quando ha capito che lei – scusi il verbo - funzionava? Intendo: la prima volta che ha capito che sapeva intrattenere le persone.
Forse la prima volta che andai a fare Libero. Non conduceva Teo Mammuccari, ma Paola Cortellesi. Credo fosse il 2000. Imitai Galeazzi e tutti si sorpresero. Prima ancora, quando scrissi una poesia sui campi di sterminio, perché forse avevamo visto qualcosa a scuola. Mi colpii il filo spinato e in un verso scrissi: “Lo tocchi ed esce una goccia di dolore”. La maestra non credeva ai suoi occhi. Chiamò mia madre per complimentarsi, e pure un paio di giornalisti. Avevo sette anni, a scuola ero scarsino, distratto, risentivo molto dell’assenza di mio padre, che viaggiava per lavoro e non c’era mai. Fu così per dieci anni, dai sei ai sedici non lo vidi quasi mai: mi segnò enormemente.
Lei prova a non fare lo stesso con Matilda?
Certo. Gliel’ho detto: sono appiccicoso. Ma sbaglio. Chi lo dice che esiste un modo unico e giusto di fare il padre? Mia figlia è diversa dal figlio che sono stato io. La cosa certamente giusta è una sola: il mio dovere di lasciare che lei mi ammazzi, mi faccia a pezzi. Mi costa una gran fatica accettarlo e non starle addosso, perché sono un narcisista invadente. So benissimo che dovrei entrare meno nella sua camera e farmi i fatti miei, ma non sempre ci riesco.
Ci si riprende da tutto?
No. Dalla morte di chi ami no. Io ho subìto dei lutti naturali, ho perso mia madre e mio padre, eppure ho sofferto in un modo così profondo e forte che, da allora, sono terrorizzato dalla morte e spero di andarmene prima di tutti. Quando è morta Nadia Toffa, per me è stato come se un asteroide mi fosse passato di fianco. Mi sono sentito in colpa. Non so dirglielo diversamente.
Non c’è un altro modo, credo. Lei è sempre molto chiaro, preciso. Spesso si è definito didascalico. Vale ancora?
Eccome. Da sempre voglio abbassare l’alto, far capire le cose, divulgare. In molti credono che questa mia ossessione derivi dal fatto che penso che il pubblico sia scemo. E invece no. Penso semplicemente che le persone abbiano di meglio da fare che ricordarsi quello che dico, come mi chiamo, cosa racconto. La radio spesso è un sottofondo e allora meglio dirle due volte le cose, e dirle bene, con semplicità, di modo che entrino in testa anche a chi è sovrappensiero, impegnato in altro.
La tv sparirà?
L’ho sentito dire decine di volte, come anche per la radio, e non è mai successo. Dicevano che l’Mp3, l’iPhone, il cd avrebbero ammazzato la radio, invece sono diventati tutti amplificatori di contenuti radiofonici. Netflix, Amazon, Sky hanno frammentato il pubblico, ma non è per forza un male. Dopo le undici di sera, il 60 per cento degli italiani non guarda i primi sette canali, ma altre tv: è chiaro che è successo qualcosa di epocale. Ma epocale non significa letale. Sbagliato è fare la tv secondo schemi vetusti, non continuare a farla. Per quanto mi riguarda è ancora una vecchia e cara compagnia.
Cosa la emoziona?
La musica. Vado in giro con le cuffiette, sono continuamente in ascolto. Da un po’ ho sistemato il mio studio in casa e per una metà sembra la stanzetta di un adolescente nel 1987, cioè quello che sono stato, con i vinili e gli impianti, e per l’altra metà assomiglia a uno studio notarile. Sono maniacale. Ora sono in fissa con Ivan Graziani, ho ricominciato ad ascoltarlo dopo aver conosciuto Lucio Corsi, che mi ci ha fatto pensare ricordandomelo moltissimo (procedo sempre così, per associazioni). E come tutte le volte che scopro o riscopro un amore, lo studio approfonditamente, mi ci dedico come se mi ci dovessi laureare.
Sui cantautori, allora, ha cambiato idea. Ma il suo primo amore qual è stato?
La techno. Non m’importava che di quella. Nei primi anni Novanta facevo il disk jockey. E feci anche una versione techno di Pinocchio e vendetti migliaia di copie. Ancora adesso non me ne capacito. Non so come feci a non perdere la testa: ero un ragazzetto, il successo e i soldi arrivarono all’improvviso e nessuno mi insegnò ad amministrarli. Se qualcuno ci fosse stato, avrei imparato almeno come si fa a non farsi fregare.
Ho una domanda molto ma molto intima.
Prego.
La vestaglia ce l’ha?
Adesso no, ma prima dei trent’anni l’avevo. Andrea Pellizzari ancora mi rimprovera di avergliene lasciata una, orrenda, di una specie di velluto blu, a casa sua, quando mi ci rifugiai dopo un disastro. La comprai a ventitré anni perché volevo essere vecchio.
E adesso?
Adesso voglio essere giovane, naturalmente. E allora vado a correre.